lunedì 25 marzo 2024

 

Se il genocidio è un rumore di fondo
di Naomi Klein



È una tradizione degli Oscar: un discorso politico squarcia il velo della mondanità e dell’autocelebrazione. Ne scaturiscono reazioni contrastanti. Alcuni lodano l’oratore, altri lo ritengono l’usurpatore
egoista di una notte di celebrazioni. Poi tutti girano pagina.

Eppure sospetto che l’impatto delle parole del regista Jonathan Glazer, che il 10 marzo hanno fermato il tempo alla cerimonia di premiazione di Los Angeles, durerà molto più a lungo, e il loro significato sarà oggetto di analisi per anni.

Glazer stava ritirando il premio per il miglior film internazionale per La zona d’interesse, ispirato alla storia di Rudolf Höss, il comandante del campo di concentramento di Auschwitz. Il film segue l’idilliaca vita domestica di Höss con la moglie e i figli, che si svolge in una residenza signorile con giardino adiacente al campo di concentramento.

Glazer ha descritto i suoi personaggi non come mostri, ma come “orrori non-pensanti, borghesi, ambiziosi-arrivisti”, persone capaci di trasformare il male in rumore di fondo.

Prima della cerimonia del 10 marzo, La zona d’interesse era già stato acclamato da molte star del mondo del cinema. Alfonso Cuarón, il regista premio Oscar per Roma, l’ha definito “probabilmente il film più importante di questo secolo”.

Steven Spielberg l’ha descritto come “il miglior film sull’Olocausto che io abbia visto dopo il mio”, riferendosi a Schindler’s list, che sbancò agli Oscar trent’anni fa. Ma mentre il trionfo di Schindler’s
list rappresentò un momento di unità per la maggioranza della comunità ebraica, La zona d’interesse capita in un momento diverso.

Oggi infuria il dibattito su come debbano essere ricordate le atrocità naziste: l’Olocausto dovrebbe essere considerato solo un dramma degli ebrei, o come qualcosa di più universale? Fu una lacerazione unica della storia europea, oppure un ritorno a casa dei genocidi coloniali, insieme
alle logiche e alle teorie razziali che ne erano alla base? Quel “mai più” significa mai più per tutti o mai più per gli ebrei, una promessa che rende Israele intoccabile?

Questi conflitti sull’universalismo del trauma, sull’eccezionalissimo esulla comparazione sono al centro dell’accusa di genocidio mossa dal Sudafrica a Israele presso la Corte internazionale di giustizia, e stanno lacerando le comunità ebraiche in tutto il mondo.

In un minuto Glazer ha coraggiosamente preso posizione su ciascuna di queste dispute. “Tutte le nostre scelte sono state fatte per riflettere e metterci di fronte al presente, non per dire ‘guardate cos’hanno fatto allora’, ma piuttosto ‘guardate cosa facciamo adesso’”, ha detto, sbarazzandosi dell’idea che paragonare gli orrori di oggi ai crimini nazisti significhi di per sé minimizzare, e non lasciando dubbi sul fatto che fosse sua intenzione tracciare una continuità tra il passato mostruoso e il nostro mostruoso presente.

Ed è andato oltre: “Siamo qui in quanto uomini che rifiutano di lasciar manipolare le proprie identità ebraiche e l’Olocausto da un’occupazione che ha trascinato nel conflitto tante persone innocenti, sia le vittime del 7 ottobre in Israele sia quelle dell’attacco in corso a Gaza”.

Per il regista Israele non può passarla liscia, e non è etico usare il trauma dell’Olocausto come giustificazione o copertura per le atrocità commesse oggi dallo stato israeliano.

Altri hanno sostenuto queste argomentazioni in passato, e in tanti hanno pagato a caro prezzo, soprattutto se palestinesi, arabi o musulmani.

Glazer ha sganciato la sua bomba retorica protetto da un’armatura identitaria: si è presentato alla platea come un uomo ebreo bianco e di successo – con al suo fianco altri due uomini ebrei bianchi e di successo – che, insieme, avevano fatto un film sull’Olocausto. E questo privilegio non l’ha messo al riparo dall’ondata di calunnie che hanno travisato le sue parole affermando che stava ripudiando la sua identità ebraica, un’accusa che rafforza la tesi del regista.

Altrettanto significativo è quello che è successo dopo il suo intervento. Appena Glazer ha finito il discorso – dedicando il premio ad Aleksandra Bystroń Kołodziejczyk, una donna polacca che di nascostoportava da mangiare ai prigionieri di Auschwitz e che combatté i nazisti tra le file dell’esercito polacco – sul palco sono saliti gli attori Ryan Gosling ed Emily Blunt.

Senza neppure una pausa pubblicitaria, siamo stati catapultati in una gag sul fenomeno “Barbenheimer”, con Gosling che dice a Blunt che Oppenheimer, il film sull’invenzione di un’arma di distruzione di massa in cui lei ha recitato, avrebbe sfruttato il successo di Barbie al botteghino, e Blunt che accusa Gosling di essersi dipinto degli addominali finti.

All’inizio ho temuto che questo improbabile accostamento avrebbe indebolito l’intervento di Glazer: come potevano coesistere le strazianti realtà appena invocate con questa energia da ballo del liceo californiano?

Poi ho capito: l’artificio scintillante che ha incorniciato quel discorso aiutava in realtà a ribadire il concetto. “Il genocidio diventa il sottofondo della loro vita”: Glazer ha descritto così l’atmosfera del
suo film, dove i personaggi badano ai loro problemi quotidiani – figli insonni, una madre incontentabile, l’infedeltà – all’ombra delle ciminiere che sbuffano resti umani.

Queste persone non ignorano che al di là del loro giardino stia operando una macchina di morte su scala industriale. Semplicemente hanno imparato a vivere delle vite appaganti sullo sfondo di un genocidio.

È questo l’aspetto del film di Glazer che appare più contemporaneo.
Dopo più di cinque mesi di massacri quotidiani a Gaza, con Israele che ignora gli ordini della Corte internazionale di giustizia e i governi occidentali che lo rimproverano bonariamente continuando a inviargli armi, il genocidio sta diventando ancora una volta un rumore di fondo.

Glazer ha sottolineato che il soggetto del suo film non è l’Olocausto, ma qualcosa di più duraturo e pervasivo: la capacità umana di convivere con le atrocità, di farci pace, di trarne un beneficio.

All’anteprima di maggio, prima dell’attacco di Hamas del 7 ottobre e prima dell’aggressione di Israele a Gaza, si poteva considerare il film come un’opera intellettuale da contemplare con distacco. Le persone che dalla platea del festival di Cannes hanno accolto La zona d’interesse con un applauso di sei minuti probabilmente si sentivano al sicuro ad accarezzare la sfida di Glazer.

Forse alcuni avranno riflettuto su quanto ci siamo assuefatti alle nuove imbarcazioni cariche di persone lasciate annegare nel Mediterraneo. O forse avranno pensato ai jet privati che li avevano portati in Francia e a come le loro emissioni sono legate alla scomparsa delle fonti di sostentamento per le persone povere in luoghi lontani.

Glazer voleva che il suo film provocasse questo genere di pensieri scomodi. Però, da quando è arrivato nei cinema a dicembre, la sfida con cui il regista invitava gli spettatori a contemplare l’Höss che è dentro
di noi ci ha toccato molto di più.

La maggior parte degli artisti tenta d’intercettare lo spirito dei tempi, ma La zona d’interesse potrebbe aver risentito di qualcosa di raro: un eccesso di rilevanza e di attualità.


In una delle scene più memorabili del film un pacco di vestiti e biancheria femminile rubati agli internati del campo arriva in casa Höss. La moglie del comandante, Hedwig (interpretata da Sandra Hüller),
stabilisce che tutte, comprese le domestiche, possono scegliere un capo.
Lei tiene per sé una pelliccia, e prova perfino il rossetto che trova in una tasca.

È questa intimità con i morti a essere agghiacciante. E non ho idea di come qualcuno possa guardare questa scena e non pensare ai soldati israeliani che si sono filmati mentre frugavano nella biancheria delle palestinesi a Gaza o mentre si vantavano di rubare scarpe e gioielli per le loro fidanzate o mentre si facevano selfie di gruppo con le macerie di Gaza sullo sfondo.

Sono tanti questi echi che il capolavoro di Glazer sembra un documentario. È come se, girando La zona d’interesse con lo stile di un reality show, con telecamere nascoste nella casa e nel giardino (il
regista ha parlato di “Grande fratello nella casa nazista”), il film avesse anticipato il primo genocidio in diretta streaming.

Tutti quelli che conosco che hanno guardato il film non sono riusciti a pensare ad altro che a Gaza. Questo non vuol dire stabilire un paragone con Auschwitz. Non esistono due genocidi identici. Ma il motivo stesso per cui è stato costruito l’edificio del diritto internazionale umanitario era proprio darci gli strumenti per riconoscere alcuni elementi distintivi.

E alcuni di essi – il muro, il ghetto, le uccisioni di massa, l’intento di sterminio più volte dichiarato, la riduzione alla fame, il saccheggio, la disumanizzazione, e l’umiliazione – si stanno ripetendo.
E allo stesso modo è così che il genocidio diventa un sottofondo, è così che quelli di noi un po’ più lontani da quei muri possono bloccare le immagini, spegnere le grida e semplicemente andare avanti.

Ed ecco perché l’Academy ha rafforzato il messaggio di Glazer con quel brusco passaggio a “Barbenheimer”. L’atrocità sta di nuovo diventando un sottofondo.

Cosa possiamo fare per interrompere la normalizzazione? In tanti stanno offrendo le loro risposte con proteste, con la disobbedienza civile, inviando convogli di aiuti a Gaza o raccogliendo fondi. Ma non basta.

Guardando gli Oscar, dove Glazer è stato l’unico nella passerella di ricchi a parlare di Gaza, mi è tornato in mente che erano passate due settimane da quando Aaron Bushnell, un soldato di 25 anni dell’aviazione statunitense, si è dato fuoco davanti all’ambasciata israeliana a Washington.

Non voglio che nessun altro metta in atto quella spaventosa forma di protesta. Ma dovremmo meditare sulla dichiarazione che Bushnell ha lasciato, parole che considero un finale contemporaneo del film di
Glazer: “Molti di noi si chiedono: ‘Cosa farei se vivessi durante la schiavitù? O durante l’apartheid? Cosa farei se il mio paese stesse commettendo un genocidio?’. La risposta è: lo stai facendo. Proprio in
questo istante”.

* da The Guardian

                        

Salaam Ragazzi dell’Olivo e Csa Vittoria

organizzano

MARTEDI 9 APRILE ORE 21,00

un incontro/confronto in presenza con

SAMAH JABR

psicoterapeuta e scrittrice Palestinese di Gerusalemme


Dopo aver diretto per 10 anni il centro di salute mentale del distretto di Ramallah, è diventata presidente dell'Unità di salute mentale presso il Ministero della Salute Palestinese. Samah ha anche scritto 2 libri “Dietro i Fronti” e “Sumud resistere all’occupazione” che possiamo certamente definire dei manifesti dell’orgoglio e della dignità Palestinese. Attingendo alle sue osservazioni cliniche e attualizzando il discorso di Frantz Fanon, testimonia della vita quotidiana nella Palestina occupata, invitandoci a riflettere su salute mentale, colonialismo e diritti umani.

Ma ora il popolo Palestinese è sotto l’attacco Genocida dell’entità sionista israeliana e la sua presenza assume un grandissimo valore di testimonianza.

“... Noi, palestinesi, assomigliamo a dei papaveri rossi, dalla vita breve e fragile. La comunità internazionale non è impressionata dalla nostra bellezza e trascura di tutelarci. Al contrario, ci dice spesso che la nostra aspirazione alla liberazione è assurda e non può fiorire. Ciò nonostante, noi abbiamo fiducia nella nostra capacità collettiva di abbellire il versante brullo della montagna e di ispirare una primavera rivoluzionaria agli oppressi della terra”.



FERMIAMO IL GENOCIDIO

PER IL DIRITTO ALL’ESISTENZA, ALLA RESISTENZA ALLA LIBERA AUTODETERMINAZIONE DEL POPOLO PALESTINESE.

Martedi 9 aprile al

Csa Vittoria via Friuli angolo via Muratori Milano

 

Disponibili i libri di Samah Jabr pubblicati da “Sensibili alle Foglie”


Scolpire la liberazione: le storie di Marco Cavallo e del Cavallo di Battaglia di Jenin   di Samah Jabr


Nelle storie di resilienza e resistenza sono emersi molti simboli degni di nota. Per quanto mi riguarda, due di essi sono stati delle statue di cavalli – una scultura chiamata Marco Cavallo e l’altra nota come Al-Hissan, il Cavallo di Battaglia di Jenin. Le loro storie intrecciano insieme i fili dell'arte, del simbolismo e un intricato mix di fattori sociali e politici che modellano la salute mentale. Le storie di queste due sculture offrono una visione profonda dell'universale necessità umana di esprimersi e delle sfide uniche affrontate dalle persone che vivono sotto oppressione.

Immaginatevi tra le mura del manicomio San Giovanni di Trieste, dove si erge la scultura chiamata Marco Cavallo, un faro di speranza nel cuore dell’avversità. Costruito nel 1973 grazie alla collaborazione di pazienti, artisti e staff, questo maestoso cavallo blu simboleggia il viaggio trasformativo della de-istituzionalizzazione che ha attraversato i servizi psichiatrici italiani. Sotto la guida del visionario Franco Basaglia, il direttore del manicomio, la statua Marco Cavallo è diventata più di una semplice scultura; è diventata una testimonianza del potere terapeutico dell’arte e della comunità nell'ambito della salute mentale. Intitolata al suo predecessore equino, Marco il cavallo, questa scultura incarna il desiderio di libertà e dignità all'interno dei confini del manicomio, segnando profondamente la svolta verso la ri-connessione degli internati con il mondo esterno. 

Ora spostate il vostro sguardo sulle strade martoriate di Jenin, dove la comunità palestinese ha assistito alla nascita di un altro simbolo: il Cavallo di Battaglia di Jenin. Ergendosi tra i detriti del conflitto, questa scultura alta 16 piedi (ca. 4,8 metri), ricavata dai resti metallici delle ambulanze distrutte, è diventata un faro di resilienza e sfida. Progettato dall’artista tedesco Thomas Klipper, in collaborazione con i bambini di Jenin – bambini che hanno vissuto gli orrori del massacro del 2002 – Al-Hissan incarnava la capacità dello spirito umano di superare la tragedia. Eppure, in una crudele torsione del destino, l’esercito israeliano ha preso di mira questo cavallo simbolico, cercando di cancellare non solo la sua presenza fisica, ma anche la memoria della forza e dell’identità palestinesi che quest’opera d’arte rappresentava. La statua è stata distrutta. 



I destini contrastanti di Marco Cavallo e Al-Hissan ci consentono di vedere le lotte affrontate dai palestinesi alle prese con la perdita e l'oppressione. Mentre Marco Cavallo simboleggia la liberazione all’interno delle mura del manicomio, la distruzione di Al-Hissan riflette la battaglia in corso contro la violenza dei coloni e il tentativo israeliano di cancellare la storia e l’identità palestinesi. 

I simboli hanno una profonda importanza psicologica, soprattutto di fronte alle avversità. Essi diventano contenitori di narrazioni soppresse e affermazioni di identità, agendo come potenti forme di resistenza contro la cancellazione. In Palestina, dove i fattori politici influenzano pesantemente la salute mentale, l’arte e il simbolismo emergono come risorse vitali per l’espressione e la guarigione, sollecitando interventi culturalmente sensibili e contestualmente rilevanti. 

Da una prospettiva umana, sia Marco Cavallo sia Al-Hissan sono veicoli per l’innata necessità umana di simbolismo e memoria collettiva nei momenti traumatici. Mentre Marco Cavallo rappresenta il progresso e l'emancipazione nel campo della salute mentale, la distruzione di Al-Hissan riflette il perdurante trauma sopportato dalle comunità palestinesi.

Tuttavia, un simbolo non può essere distrutto. Le storie di Marco Cavallo e del Cavallo di Battaglia di Jenin offrono nuove e approfondite consapevolezze sulla resilienza dello spirito umano e sulla potenza della memoria collettiva. Esse ci ricordano il ruolo fondamentale che i simboli svolgono nella salute mentale e mettono in evidenza l'urgenza di offrire un supporto completo alle comunità colpite da conflitti e oppressioni. Riflettendo sulle loro storie, ci torna in mente il perdurante significato dei simboli nella lotta per la libertà e la giustizia, e il profondo impatto che essi hanno sulle comunità oppresse in tutto il mondo. 

Samah Jabr MD, Head of Mental Health Unit, MoH 

Psychiatrist and Psychotherapist 

Assistant Clinical Professor, George Washington University 

https://linktr.ee/samahjabr 

Titolo originale: Sculpting Liberation: Tales of Marco Cavallo and the Jenin Battle Horse

lunedì 11 marzo 2024

Dal confine egiziano di Rafah

 

Siamo tornati dall’Egitto ieri sera, 6 marzo 2024

“Non troviamo più aggettivi per descrivere cosa sta succedendo nella Striscia di Gaza” ci ha detto il Direttore regionale dell’OMS. Catastrofe, apocalisse, niente restituisce l’orrore di quello che Israele sta imponendo a milioni di persone dentro la Striscia.

Il valico di Rafah segna il confine brevissimo tra la vita e la morte. Da una parte chi ha bisogno urgentissimo di cure, cibo, acqua, tende, coperte, ambulanze, dall’altra parte i farmaci, i pacchi alimentari, gli equipaggiamenti per costruire ripari minimamente dignitosi, le ambulanze impolverate dall’attesa.

Nel magazzino dove la Mezzaluna Rossa Egiziana custodisce i beni che vengono rifiutati ai controlli israeliani abbiamo visto bombole di ossigeno, incubatrici, stampelle, generatori e frigoriferi alimentati da pannelli solari, pasticche e macchinari per la potabilizzazione dell’acqua e molto, molto altro. Ci hanno detto che alcuni giorni fa un intero camion è stato rimandato indietro perché conteneva merendine al cioccolato, considerate beni di lusso, incompatibili con l’assistenza umanitaria. Negli ultimi giorni stanno tornando indietro anche i datteri. A giorni inizia il Ramadan, e il dattero, insieme ad un bicchiere di acqua, è tradizionalmente il gesto con cui il digiuno viene rotto al tramonto del sole.

Per usare le parole di una delle esperte di diritto internazionale che erano con noi, abbiamo visto quanto impegno e sadica precisione siano stati impiegati per costruire un sistema pensato per non avere alcuna possibilità di funzionare.

Abbiamo visto il muro lunghissimo che l’Egitto sta costruendo, e i campi di accoglienza in preparazione, se dovesse succedere il peggio. Abbiamo visto le persone che lavorano al valico stravolte da un impegno incessante che non può bastare. Siamo stati lì alcune ore, e abbiamo visto pochissimi camion partire, e non alla volta di Gaza ma verso i controlli israeliani, a Nizana o Karem abu Salem, da dove potrebbero dover tornare indietro al magazzino degli oggetti rifiutati. Non abbiamo visto neppure una persona entrare o uscire.

Sappiamo fin troppo bene che tutto questo non è iniziato il 7 ottobre. Che la punizione collettiva sulla popolazione di Gaza è iniziata quasi 17 anni fa, l’occupazione militare e la colonizzazione dei territori da quasi 57 anni, il progetto di espulsione e sostituzione dei palestinesi con gli ebrei israeliani da ben prima della Nakba.

Sappiamo anche molto bene che la ferocia di Israele è il frutto della impunità che da decenni gli è garantita soprattutto dall’occidente, un “assegno in bianco” come ci hanno ricordato vari interlocutori palestinesi incontrati in questi giorni.

Sappiamo che non può esistere una “occupazione buona”, una “colonizzazione gentile”, o, come lo ha chiamato Ilan Pappe a Firenze, un “genocida democratico”. Lo abbiamo detto e denunciato da sempre, che è la coazione a ripetere che spinge l’asticella dell’orrore sempre più alto e non chi è al governo in Israele (o che le due cose sono inestricabilmente legate, come volete voi). Ma anche noi, operatori e operatrici umanitari, dobbiamo continuare a chiederci se abbiamo fatto abbastanza.

“Se Israele volesse, potrebbe far entrare domani tutto quello che serve”, hanno ribadito più e più volte le persone con cui abbiamo parlato. Due giorni fa erano 1.500 i camion pronti ad entrare per andare ai controlli, e sulla strada che dal canale di Suez porta ad Al Arish ce ne sono tantissimi altri incolonnati in attesa che si liberino i posti nei parcheggi in prossimità del valico. Tutto questo, ovviamente, ha un costo enorme, non solo in termini di vite che questi aiuti potrebbero salvare, e mette anche a rischio i materiali, esposti al caldo e alle intemperie che rischiano di renderli inutilizzabili.

Lo sapevamo, lo gridavamo, lo denunciavamo, e non da ora – da decenni. In questi giorni siamo riusciti a portare lì parlamentari e giornalisti, a vedere con i loro occhi, e a guardare i Palestinesi di Gaza – quei pochi che sono riusciti a raggiungere l’Egitto – negli occhi mentre ascoltavano, finalmente, la verità.

Un sistema sanitario che è stato deliberatamente distrutto, insieme a tutte le infrastrutture, le cisterne, gli impianti di desalinizzazione, i mulini, le panetterie, tutte le università, le scuole, gli ambulatori, le ambulanze, il patrimonio culturale…un attacco che prende di mira i civili, utilizzando non solo le bombe e l’artiglieria, ma la fame, la sete, la promiscuità, l’assenza di cure e di carburante come armi di guerra. E che le usa sempre di più via via che cresce la consapevolezza, e che aumentano le pressioni internazionali perché Israele rispetti i propri obblighi sia di parte in conflitto che di potenza occupante.

Migliaia di persone che sono morte sotto le macerie delle loro case, e che non hanno potuto essere soccorse, forse salvate, almeno sepolte. Decine e decine di operatori e operatrici delle squadre di soccorso medico uccisi mentre cercavano di raggiungere i feriti, e dopo aver comunicato all’esercito israeliano dove stavano andando e averne ottenuto l’approvazione. Moltissimi altri che sono stati arrestati, torturati, abusati anche sessualmente, per estorcere una confessione che avallasse la narrazione israeliana.

Centinaia di migliaia di persone, soprattutto nel Nord, che sopravvivono nutrendosi di cibo per animali ed erbe selvatiche. Sono già almeno 10 i bambini e le bambine morti di stenti, ma il numero non è calcolabile, perché nessuna agenzia riesce ad avere accesso a oltre metà della Striscia, a causa delle truppe israeliane che vi stazionano e che sparano a qualsiasi cosa si muova, comprese – lo sappiamo – le persone che cercano di accaparrarsi i pochissimi aiuti che riescono ad avvicinarsi. Se anche arrivasse il cessate il fuoco in questo istante, ci sarebbero almeno altre 6.000 vittime, persone già ferite che non hanno possibilità di sopravvivere, malati che non hanno ricevuto cure (come malati oncologici, malati cronici, persone anziane), persone che hanno contratto o stanno per contrarre malattie causate dalle condizioni di vita a cui sono costrette da mesi.

E poi ci sono tutte le ferite che non si vedono. L’orrore di 5 mesi di incessanti bombardamenti, la perdita di persone care, della casa, del lavoro, un anno scolastico praticamente mai iniziato, milioni di persone che da mesi non hanno 5 minuti di privacy, una doccia calda, un momento di riposo, e devono anche sentirsi “fortunate” perché vive. Almeno fino ad ora.

La carovana solidale Rafah – Gaza oltre il confine è stata la delegazione più numerosa a raggiungere Rafah dal 7 ottobre. Erano presenti le ONG di AOI, l’ARCI, Assopace, esperti ed esperte di diritto internazionale, 14 parlamentari e molti giornalisti e giornaliste. Ci siamo riusciti perché ci credevamo fortemente, e anche grazie all’indispensabile supporto della nostra Ambasciata in Egitto e dell’Ambasciata egiziana a Roma.

Non è un risultato, non era l’obiettivo, è solo un piccolo passo – necessario - di un percorso lungo che non abbiamo alcuna intenzione di fermare qui.

Cosa ci hanno chiesto tutte le persone, le organizzazioni palestinesi e internazionali che abbiamo incontrato? Di pretendere un cessate il fuoco immediato e permanente, condizione imprescindibile per portare dentro la Striscia un’assistenza umanitaria degna di questo nome. Secondo uno studio della John Hopkins University e della London School of Hygene and Tropical Desease, senza un cessate il fuoco, entro 6 mesi 85.000 persone moriranno nella Striscia, uccise dalle ferite e dagli attacchi ma anche da malattie assolutamente curabili.

Ci hanno chiesto di garantire accountability, di smettere di credere a tutto quello che Israele afferma senza fare neanche lo sforzo di produrre uno straccio di prova, di smettere di fornire armi ad Israele, di aumentare – non sospendere! – i fondi ad UNRWA, di fornire assistenza umanitaria in modo consono, dignitoso, e capillare. Via terra, come è naturale che sia, aprendo tutti i valichi. E poi di lavorare davvero per la fine dell’occupazione, per lo smantellamento del sistema di colonizzazione, per una soluzione giusta e duratura basata sulla giustizia e sul diritto internazionale, non sulla legge del più forte.

Il vicedirettore della Mezzaluna Rossa palestinese ha concluso così l’ultimo incontro del viaggio: “Noi siamo un popolo resiliente, capace di rimettersi in piedi dopo ogni difficoltà. Abbiamo solo bisogno del vostro supporto e della vostra solidarietà. Garantiteci il vostro supporto e la vostra solidarietà, e noi ci rimetteremo in piedi e ricostruiremo la Striscia di Gaza”.

Io posso solo dire grazie a tutte e tutti i miei compagni di viaggio, a tutte le persone che abbiamo incontrato, alla Palestina e ai Palestinesi, che continuano ad insegnarci la vita, la dignità, e che ancora, nonostante tutto, ci guardano negli occhi senza odio. Non lo so come fanno, ma difendere loro oggi significa salvare noi, tutti noi, l’umanità intera.

 

Ilaria Masieri  della ONG Terre des Hommes Italia.


giovedì 8 febbraio 2024

RACCOLTA FONDI

Cari/e  affidatari/e,  amici e amiche di Salaam,


stiamo vivendo con angoscia, rabbia e tristezza quello che sta succedendo nella striscia di Gaza e in tutta la Palestina da oltre 3 mesi e ci pareva importante fare il punto della situazione sul nostro progetto di affido a distanza e su cosa possiamo fare o stiamo facendo per cercare di sostenere fattivamente l’infanzia e la popolazione di Gaza e della Cisgiordania.

Come vi avevamo già scritto il direttore del REC, Husam Hamdouna, è in Italia con un altro collaboratore, dove si sono ritrovati bloccati dopo il 7 ottobre, in quanto si trovavano in Italia per incontrare Salaam e altre Associazioni;  Husam è in contatto con vari operatori del REC nella striscia di Gaza, quasi tutti sfollati da Jabalia in posti diversi, dove, nonostante le drammatiche condizioni in cui vivono,  cercano di portare avanti il loro lavoro di sostegno alle famiglie.

Come ben sappiamo tutte/i voi siete preoccupati per le/i vostre/i bambine/i che avete in affido a distanza e siete in attesa di avere notizie.  

L’1/12/23 il direttore del REC Husam Hamdouna ci ha mandato qualche notizia riguardante 26 bambine/i affidati, grazie a sua moglie Bushra (operatrice del REC, sfollata con la famiglia nel Sud della striscia di Gaza), la quale con grande fatica è riuscita ad avere queste notizie. Questi 26 bambine/i erano ancora tutti vivi. Tutte le famiglie hanno avuto le case danneggiate (chi in modo moderato, chi più pesantemente e chi totalmente distrutta). Solo 2 famiglie sono rimaste nelle loro case (seppure danneggiate), mentre tutte le altre si sono rifugiate in scuole del Nord, oppure del Sud dove si sono spostati. Molti di loro hanno avuto famigliari feriti o uccisi.

Successivamente abbiamo avuto notizie di altri 3 bambini/e e delle loro famiglie: di questi purtroppo una famiglia è stata sterminata mentre gli altri due erano vivi.  Degli altri 74 bambini/e purtroppo non abbiamo notizie.

Certo siamo molto preoccupati e potrebbero essere stati uccisi, ma per ora non abbiamo notizie in merito. Così come alcuni dei 28 bimbi/e che erano vivi a dicembre potrebbero in effetti essere stati successivamente colpiti.

Purtroppo come potete immaginare anche gli operatori del REC con le loro famiglie  sono sotto le bombe, sono sfollati per lo più al sud della striscia di Gaza,  cercano di sopravvivere (senza cibo, acqua, cure sanitarie, elettricità, etc),  hanno avuto famigliari uccisi ( abbiamo appena avuto notizia che è stato ucciso un figlio di Ala, lo  psicologo del REC, un grande nostro amico da 20 anni), per cui, per quanto si siano attivati, sono in grande difficoltà a recuperare le notizie dei bimbi/e affidati/e, le cui famiglie pure sono per lo più rifugiate al sud… chissà dove!

Certamente Salaam continuerà ad esistere e impegnarsi nella solidarietà con il popolo e specie l'infanzia palestinese. E il nostro maggiore impegno sarà certamente rivolto alla striscia di Gaza, dove, quando finalmente finirà questo massacro, le famiglie sopravvissute (quelle affidate e altre) avranno bisogno di tutta la nostra solidarietà. Ora non possiamo sapere come ci organizzeremo, se il progetto di affido a distanza proseguirà nello stesso modo o meno, o se bisognerà costruire progetti di intervento differenti. Lo vedremo in base ai bisogni e in base a come si potrà muoversi in quel territorio che sarà completamento distrutto (dipenderà anche da chi gestirà Gaza...??!)

Ovviamente non sappiamo neppure quale sarà il futuro del REC; per ora naturalmente non lo sanno neppure loro, ma vedrete che anche loro proseguiranno in qualche modo, si riorganizzeranno e noi ci saremo per/con loro! 

Per ora è importante cercare di fare arrivare aiuti a Gaza per l'emergenza e la sopravvivenza della popolazione.  E' vero che subito dal 7/10 sono stati bloccati (per tutte le associazioni, ong, etc) i flussi bancari verso Gaza.  

Nelle prime settimane eravamo comunque riusciti a fare arrivare a Gaza, tramite la Associazione NWRG ONLUS di Paola Manduca, genetista di Genova, con cui collaboriamo da anni, un contributo di 1.000 Euro per acquisto di latte per i neonati e qualche presidio sanitario.

Poi tutto era stato bloccato.

Ma finalmente, da pochi giorni abbiamo trovato il modo (complicato ma funzionante!) per fare arrivare i soldi a Gaza sia ad alcuni operatori del REC, che provvederanno a distribuire aiuti per la sopravvivenza alle famiglie (affidate e non), sia ad altri soggetti/associazioni locali affidabili che pure provvederanno agli aiuti per la popolazione.

Ad oggi siamo riusciti ad inviare 11.000 Euro dalla Raccolta Fondi che abbiamo fatto per l’emergenza a Gaza; siamo sicuri che siano arrivati e siano stati usati per pacchi alimentari, dispositivi per l’igiene intima (pannolini, assorbenti..),  materiali per la costruzione di ripari per le famiglie (anche solo teli di plastica) e attività per aiutare i bambini a sopravvivere in quelle terribili condizioni.

Cercare di fare arrivare farmaci è ancora più complicato, ma proprio oggi abbiamo saputo che la Associazione NWRG ONLUS di Paola Manduca, riuscirebbe ad ordinare farmaci in Egitto e la carovana che si sta avviando dall'Italia li  ritirerebbe a Il Cairo e li porterebbe dentro la striscia di  Gaza, consegnandoli  al Ministero della Salute.  Pertanto abbiamo deciso di destinare altre 3.000 Euro della Raccolta Fondi di Salaam per l’acquisto dei farmaci.

Per quanto riguarda gli affidi come sapete da ottobre l’invio delle quote a Gaza è stato bloccato,  ma negli ultimi giorni siamo riusciti a trovare un canale,   mediante il quale,  a breve,  potremo inviare sia le quote per il trimestre ottobre – dicembre 2023 che quelle per il trimestre gennaio – marzo 2024.

Il REC si è impegnato a cercare tutti/e i/le bambini/e affidati/e e le loro famiglie, a consegnare loro le quote e a rendercene conto; e ci avviseranno di ogni problema dovessero incontrare.

Dovremo avere pazienza perché, come potete immaginare, il loro lavoro sul campo non sarà assolutamente semplice.

Per quanto riguarda il 50% delle quote di competenza del REC  verranno utilizzate per pagare il lavoro degli operatori sul campo, per il rimborso delle spese da loro sostenute e per il supporto di altre famiglie.

 

Salaam prosegue la RACCOLTA FONDI PER “EMERGENZA GAZA”.

IBAN  IT48X0501801600000011047719

Causale: “donazione Emergenza Gaza”.

 

 Il direttivo di Salaam Ragazzi dell’Olivo-Milano-Onlus

domenica 10 dicembre 2023

14 dicembre: a sostegno della Resistenza Palestinese: davanti al Carrefour

 

            GIOVEDI 14 DICEMBRE 2023 DALLE ORE 17:00 

            DAVANTI AL CARREFOUR DI VIA SPINOZA (PIOLA) MILANO


Per le sue attività commerciali nelle colonie illegali israeliane Carrefour è complice dell’occupazione e dell’apartheid in Palestina.

Contro ogni forma di collaborazione con il colonialismo sionista. Nessun accordo militare, politico, economico e di ricerca scientifica con l’entità razzista e criminale di Israele.
Con la Resistenza Palestinese, per la fine immediata del genocidio a Gaza!