L’hanno definita una protesta senza precedenti
quella che da gennaio occupa le strade delle più importanti città
israeliane: partita con numeri limitati, otto-novemila persone a Tel
Aviv, la protesta è stata un crescendo, superando i 150mila manifestanti
e assorbendo classi sociali diverse. C’è chi ha provato a fare un
parallelo con il movimento delle tende, gli indignados israeliani
che nel 2011 si accamparono nel centro della capitale contro carovita e
diritto alla casa, per molti una chimera in un paese che dagli anni
Ottanta ha virato con prepotenza verso un modello socio-economico
spiccatamente neoliberista.
Un parallelo, però, è difficile da tracciare. Stavolta al cuore della
mobilitazione sta tutt’altra rivendicazione, quella che il movimento ha
chiamato una battaglia a difesa della democrazia israeliana messa a
rischio dalla riforma della giustizia agognata dal neonato governo di
ultradestra, guidato dall’immortale Benyamin Netanyahu. Che oggi è stato
costretto al passo indietro: riforma temporaneamente sospesa per
fermare lo sciopero generale indetto dal principale sindacato
israeliano, Histadrut. Cosa accadrà nei prossimi giorni è ancora da
decifrare: il collasso della maggioranza di governo non è più così
improbabile.
La riforma, nelle intenzioni dell’affollata coalizione di governo,
indebolirebbe i poteri della magistratura, a partire dalla sua testa, la
Corte suprema. «Consiste di quattro elementi – riassumono su The Nation
i due giornalisti israeliani, Meron Rapoport e Oren Ziv – Garantire al
governo il controllo totale sulla nomina dei nuovi giudici; rendere
quasi impossibile per la Corte suprema invalidare leggi che violano i
diritti umani; permettere alla Knesset (il parlamento, ndr) di annullare
tali decisioni nei rari casi in cui saranno assunte; abolire il potere
delle corti di rivedere le decisioni assunte dalle autorità nazionali e
locali. Nel sistema unicamerale di Israele, dove la Knesset è
controllata di fatto dal governo, non c’è una costituzione e le corti
sono il solo guardiano del braccio esecutivo, tali riforme darebbero al
governo poteri quasi illimitati».
Con una serie di obiettivi: il premier Netanyahu sogna di affossare i
processi che lo vedono imputato per corruzione; i ministri esponenti
del movimento dei coloni, da Levin (giustizia) a Smotrich (finanze),
sperano di poter procedere all’annessione dei Territori palestinesi
occupati liberandosi di quella magistratura «liberale» che tacciano di
operare come «Stato profondo”; i partiti nazionalisti-religiosi di
ultradestra puntano all’affossamento dei diritti civili e di quelli
delle odiate persone Lgbtqia+.
Stavolta nelle piazze non ci sono solo attivisti riconducibili alla
sinistra sionista israeliana, che dalle tende chiedeva maggiore
eguaglianza sociale in un paese devastato da precarizzazione del lavoro,
de-sindacalizzazione e privatizzazioni selvagge dei sistemi
pensionistico, assicurativo, scolastico e sanitario. In queste settimane
a sventolare la bandiera israeliana in strada e a scontrarsi con la
polizia è un ampio spettro della frammentata società israeliana:
giovani, classe media, dipendenti del mondo high-tech e delle start up,
professionisti, intellettuali, giudici e procuratori, militari e anche
una buona fetta dell’elettorato di destra che vede nella riforma il
superamento di una linea rossa.
Un punto in comune, però, con gli indignati di dodici anni fa c’è:
l’esclusione della questione palestinese. Nelle prime proteste, i
palestinesi con cittadinanza israeliana si sono visti, qualcuno ha anche
preso parola tentando di legare le rivendicazioni del movimento con il
sistema di discriminazione strutturale che soffoca i palestinesi di qua e
di là dal muro, dentro Israele e nei Territori occupati. Rapidamente,
però, sono scomparsi. Perché questa è una mobilitazione conservatrice,
volta a mantenere lo status quo attuale o, nel migliore dei casi, a
rinviare a un futuro vago la questione palestinese come non fosse
centrale, fondativa, della natura stessa di Israele.
Nessuno, né chi sta al governo né chi lo contesta, intende affrontare
l’elefante nella stanza, che mina le basi sia dello Stato di Israele
sia dell’attuale mobilitazione: un paese che occupa e discrimina un
intero popolo da 75 anni può essere una democrazia realizzata? E la
presunta indipendenza del suo sistema giudiziario può permettergli di
ritenersi tale?
Il ruolo del sistema giudiziario nel mantenimento dell’apartheid
Per comprendere l’oggi è imprescindibile tornare indietro di sette decenni, alla nascita di Israele e alla Nakba palestinese
(la catastrofe, l’espulsione forzata dalla Palestina storica dell’80%
della popolazione palestinese dell’epoca, circa un milione di persone, e
lo spossessamento di beni mobili e immobili assorbiti dal nuovo Stato).
A partire dal 1948, Israele ha avuto l’ovvia e impellente necessità di
normare sé stesso e costruire un’impalcatura istituzionale e legislativa
che dettasse il perimetro della realtà che aveva creato sul terreno.
Non bastava espellere la popolazione indesiderata e sostituirla con
quella voluta, serviva farlo «legalmente».
L’occupazione e l’esproprio delle terre palestinesi e di ciò che ci
stava sopra (case, palazzi del governo, campi coltivati, porti, strade,
biblioteche) e la negazione del diritto al ritorno per i rifugiati
palestinesi, ottenuti con la violenza, sono stati istituzionalizzati,
regolati da leggi dello Stato e salvaguardati dal neonato sistema
giudiziario israeliano.
Dal 1948 la magistratura è stata uno degli strumenti di realizzazione
e sopravvivenza sia dell’occupazione militare che del sistema di
segregazione etnico-confessionale portati avanti dal potere esecutivo
(quello che organizzazioni internazionali come Amnesty International e
Human Rights Watch e israeliane come B’Tselem definiscono regime di
apartheid).
Negli anni successivi alla Nakba, Israele ha imbastito una rete
normativa atta a legittimare lo stato d’eccezione: la legge militare
applicata ai palestinesi rimasti dentro i confini israeliani (con ghetti
ad hoc da cui si entrava e si usciva solo con permesso dell’esercito),
l’esproprio dei beni dei rifugiati all’estero e anche di coloro rimasti
sul territorio (la legge degli Assenti e la legge dei Presenti-Assenti),
il divieto per i profughi a tornare a casa (pena l’esecuzione sul posto
o l’arresto), la differenza tra nazionalità ebraica e cittadinanza
israeliana, la negazione del diritto alla cittadinanza ai palestinesi
residenti a Gerusalemme est che «godono» di un mero permesso alla
residenza revocabile in qualsiasi momento.
Seguiranno altre normative, attualmente una sessantina, che in modo
più o meno diretto privano i palestinesi cittadini israeliani dei
diritti riconosciuti agli ebrei israeliani nell’accesso alle proprietà
immobili, a determinati impieghi, al matrimonio libero con persone
provenienti da paesi considerati ostili (tra cui Cisgiordania e Gaza) e
al ricongiungimento familiare, all’ampliamento dei confini municipali
delle comunità palestinesi sovraffollate. Fino alla più palese
discriminazione istituzionale: la legge dello Stato-nazione del 2018 –
che definisce Israele patria dei soli cittadini ebrei e promuove
comunità solo ebraiche – è stata convalidata dalla Corte suprema nel
luglio 2021.
Nessuna di queste normative, pur se trascinate di fronte ai più alti
vertici della giustizia israeliana, è stata abrogata o contestata. In
assenza di una Costituzione (Israele ha solo un insieme di leggi
fondamentali) le corti hanno costantemente avallato e protetto
l’espansione e il consolidamento della discriminazione di Stato.
«I tribunali si sono arresi, se non addirittura hanno attivamente promosso i valori della filosofia sionista – scrive su 972mag
l’attivista femminista palestinese Samah Salaime – In innumerevoli
sentenze, la Corte suprema ha costantemente garantito legittimazione al
calpestio dei diritti palestinesi […] Molti palestinesi vedono la lotta
per il destino del sistema giudiziario come una battaglia inter-ebraica,
con il movimento di opposizione che semplicemente prova a mantenere in
piedi l’idea fittizia che Israele sia uno Stato “ebraico e
democratico”».
Magistratura libera in uno stato d’eccezione permanente
«La parola ‘occupazione’ [nelle piazze, ndr] non viene mai
pronunciata. La parola d’ordine è ‘democrazia’ – continuano Rapoport e
Ziv – Secondo gli organizzatori della protesta, la Corte suprema è la
guardiana dei diritti umani e dei valori liberali e la riforma
distruggerà queste sacre istituzioni. Quel che chiedono è mantenere le
cose così come sono». La scomparsa dei palestinesi dalla protesta è
stata rapida e per molti israeliani indolore: i temi non combaciavano.
Lo dimostra il caso della femminista palestinese di Haifa che ha
rinunciato a parlare dal megafono dopo che gli hanno censurato mezzo
discorso: sollevava il tema dell’occupazione.
Al di là del muro, nei Territori palestinesi occupati di Cisgiordania
e Gaza (Gerusalemme est è caso a parte, perché considerato da Israele
territorio dello Stato e sua capitale, in violazione del diritto
internazionale), il sistema giudiziario israeliano è tra i responsabili
del mantenimento dell’occupazione militare, iniziata nel 1967
e considerata illegale dal diritto internazionale. Uno stato
d’eccezione permanente seppur temporaneo per sua definizione: secondo
coordinate apparentemente emergenziali tende verso un obiettivo
strutturale, l’annessione allo Stato di Israele.
Ciò ha fatto sì che il sistema giudiziario israeliano non abbia mai
contestato gli atti del potere occupante, seppur in palese violazione
del diritto internazionale. Non ha messo in discussione il muro di
separazione che ha annesso di fatto a Israele un altro 20% di
Cisgiordania occupata, né la costruzione di colonie da parte dello Stato
(pur avendo in alcuni casi chiesto lo sgombero di insediamenti messi in
piedi in autonomia dal movimento dei coloni) o la sottrazione delle
risorse naturali palestinesi, dai campi alle sorgenti d’acqua. Al
contrario ha avallato ordini di espulsione e confisca – l’ultimo in
ordine di tempo il via libera della Corte suprema dello scorso maggio
allo sgombero dei dodici villaggi palestinesi di Masafer Yatta, nel sud
della Cisgiordania, a favore di un poligono di tiro israeliano.
A ciò si aggiunge un imprescindibile elemento. Nella Cisgiordania
occupata opera un doppio sistema giudiziario, uno civile riservato ai
cittadini israeliani (i coloni presenti illegalmente sul territorio) e
uno militare destinato ai palestinesi. I primi sono inquisiti e
giudicati dai tribunali civili dentro Israele, i secondi da corti
militari in Cisgiordania. Cambia tutto: i diritti dell’arrestato, i
tempi di custodia, l’accesso alla difesa, le pene, il ricorso alla
detenzione cautelare, l’età legale per distinguere un adulto da un
minore. In peggio per i palestinesi, privati dei diritti riconosciuti a
imputati e detenuti israeliani anche in presenza di identico reato.
Una realtà che si trasla dentro le aule giudiziarie e raggiunge
l’apice quando il crimine è commesso da un soldato di Tel Aviv: dati
alla mano, raccolti da Ong palestinesi e israeliane, a fronte delle
denunce palestinesi verso militari e coloni responsabili di violenze,
un’inchiesta non si apre quasi mai. E se si arriva a giudizio, le pene
sono infinitamente inferiori. Basti ricordare il caso del soldato Elor
Azaria che nel marzo 2016 a Hebron uccise a sangue freddo il palestinese
Abdul Fatah al-Sharif, ferito a terra, incapace di rappresentare alcuna
minaccia: fu condannato a 18 mesi per omicidio colposo, poi ridotti a
nove. In effetti un’eccezione: non perché solitamente le pene siano più
alte, ma perché generalmente non si va a processo. Alla magistratura
sono sufficienti i rapporti dell’esercito e le «sentenze» di
auto-assoluzione.
Di fronte alla mobilitazione pro-magistratura in corso è dunque
legittimo chiedersi se può davvero esistere una magistratura libera e
indipendente in una situazione radicata di occupazione militare e di
distinzione istituzionale dei diritti umani su base etnica e religiosa. È
possibile parlare di giustizia democratica se questa avalla la
violazione sistematica dei principi del diritto internazionale?
Il caso dei soldati disobbedienti
La risposta è in parte data dall’ampia partecipazione di membri
dell’esercito israeliano alla protesta contro la riforma della
giustizia. Scendono in piazza, giungono a «rubare» un carro armato
commemorativo del 1973 per condurlo tra i manifestanti come simbolo di
disobbedienza civile, rifiutano di rispettare gli ordini in aperta sfida
a quella che ritengono una mossa capace di sgretolare le basi della
democrazia del loro paese.
Gli stessi soldati che non si sono tirati indietro di fronte a ordini
di aggressione sproporzionata contro le comunità palestinesi di Gaza o
Cisgiordania, fautori pratici dell’assedio e l’occupazione dei Territori
occupati e di quelli che svariati rapporti Onu e di Ong indipendenti
hanno definito crimini di guerra.
Secondo esperti israeliani, la ragione sta proprio qui. La comunità
internazionale impedisce che Israele venga giudicato da tribunali
indipendenti, o anche solo messo sotto inchiesta, facendosi scudo con
l’indipendenza della sua magistratura (ignorando i punti di cui sopra).
Ovvero: Israele ha un sistema giudiziario democratico e indipendente dal
potere esecutivo, può giudicare sé stesso. La percezione potrebbe
cambiare con una virata palesemente illiberale come quella sognata
dall’ultradestra di governo. E quei soldati potrebbero, chissà, un
giorno trovarsi a rispondere dei crimini commessi contro il popolo
palestinese. Difficile avvenga, ma meglio non rischiare.
Dopotutto lo pensa Moshe Ya’alon, ex ministro della difesa ed ex capo
di stato maggiore, uno che dice di limitare al massimo i viaggi
all’estero per paura di essere arrestato per crimini di guerra: tra gli
altri, la partecipazione all’invasione del Libano nel 1982; la gestione
dell’operazione Scudo Difensivo del 2002 con cui represse nel sangue la
Seconda Intifada palestinese; la più mortifera operazione militare
contro Gaza, Margine Protettivo nell’estate 2014. Da gennaio guida la
protesta perché «non abbiamo combattuto i nemici esterni per dare il
paese a questi criminali».
Così succede che nelle piazze che gridano «democrazia» nessuno ha
pensato di mostrare sdegno per il pogrom che nelle stesse ore devastava
la città palestinese di Huwwara, con auto e case date alle fiamme dai
coloni sotto lo sguardo indulgente dell’esercito israeliano. «Questa
dissonanza – spiega l’analista israeliano Michael Schaeffer Omer-Man su 972mag
– dimostra che l’opposizione al piano di Netanyahu non offre una
visione alternativa. Non sta suggerendo che Israele adotti una
costituzione con garanzie formali di eguaglianza, diritti civili,
democrazia. Non intende denunciare le aspirazioni espansioniste di
Levin, Smotrich e Ben Gvir perché l’idea che la Terra di Israele
appartiene al popolo ebraico è parte dell’ethos sionista. Non è capace
di definire cosa sia effettivamente la democrazia ebraica se questa
continua a governare anti-democraticamente milioni di palestinesi senza
garantirgli eguali diritti».
*Chiara Cruciati (1983), giornalista, scrive di Medio Oriente sulle pagine del quotidiano il manifesto. È autrice con Michele Giorgio di Cinquant’anni dopo (Alegre, 2017) e Israele, mito e realtà (Alegre, 2018). Il suo ultimo libro, scritto con Rojbîn Berîtan, è La montagna sola. Gli ezidi e l’autonomia democratica di Şengal (Alegre, 2022).
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