giovedì 25 aprile 2024

 Care/i amiche e amici,

alla manifestazione del 25 aprile Salaam sarà presente  nello spezzone Palestinese, organizzato dalle Associazioni e delle Comunità Palestinesi,  dove far sentire insieme la voce di dolore, di rabbia, di Resistenza del popolo Palestinese.

 

GIOVEDI 25 APRILE ORE 14 via Palestro - Spezzone Palestinese

 

CONTRO L’OCCUPZIONE SIONISTA

     CONTRO  il GENOCIDIO e la PULIZIA ETNICA

                                                                     PER UNA VERA E GIUSTA PACE

    PER IL DIRITTO ALLA LIBERA AUTODETERMINAZIONE del POPOLO PALESTINESE


Punto di ritrovo per Salaam: Arco Porta Luppi in Corso Porta Venezia angolo Via Tommaso Salvini

 

martedì 23 aprile 2024

Report SAMAH JABR

Care/i amiche e amici di Salaam,

con piacere vi inviamo il report relativo alle iniziative pubbliche con la psichiatra, psicoterapeuta, scrittrice palestinese di Gerusalemme SAMAH JABR.

Per chi non avesse partecipato a una delle iniziative potrete vederle/ascoltarle dai link sottostanti.


Noi, palestinesi, assomigliamo a dei papaveri rossi, dalla vita breve e fragile. La comunità internazionale non è impressionata dalla nostra bellezza e trascura di tutelarci. Al contrario, ci dice spesso che la nostra aspirazione alla liberazione è assurda e non può fiorire. Ciò nonostante, noi abbiamo fiducia nella nostra capacità collettiva di abbellire il versante brullo della montagna e di ispirare una primavera rivoluzionaria agli oppressi della terra”.
(Samah Jabr)


Sabato 13 aprile Samah Jabr è tornata a Gerusalemme dopo quattro giornate di incontri che definiamo semplicemente eccezionali.
La solidarietà nei confronti del popolo Palestinese si basa prima di tutto su una valutazione razionale, storica e politica dell’importanza della sua lotta nella comune battaglia contro l’imperialismo, il colonialismo e il suprematismo, che muovono l’occupazione e l’oppressione sionista.
Ma la stessa solidarietà vive e cammina sulle gambe di una componente di fortissima empatia per la sofferenza e il dolore che il genocidio del popolo Palestinese sta subendo giorno dopo giorno.
Queste quattro iniziative dal 9 al 12 aprile – Milano, Piacenza, Pisa e Firenze – sono riuscite, grazie all'enorme rigore, semplicità, trasparenza e spessore di Samah, a cogliere entrambe le componenti della solidarietà e a ricomporle e declinarle in un unico ragionamento semplice e accessibile per ogni partecipante agli incontri.
Crediamo che gli interventi di Samah siano state semplici e profondi insieme, e siano stati fondamentali per dare risposta alla voglia di conoscenza di ogni partecipante, sia che fossero attiviste/i di organizzazioni umanitarie, militanti internazionalisti, neo-simpatizzanti per la causa palestinese spinte/i all'attivismo dal genocidio in corso, giovani studentesse/i, psicologhe/gi, psicoterapeute, educatrici e educatori, o anche curiosi o curiose mosse/i dalla voglia di capirne di più. Crediamo anche quasi impossibile attribuire categorie a tutte quelle persone che hanno dato vita e partecipato alle quattro iniziative e si sono emozionate/i o hanno rafforzato la loro scelta di solidarietà al popolo Palestinese.
Una sintesi dei quattro incontri è certamente impossibile ma certamente c'è stato un approfondimento sotto tutti i punti di vista della Resistenza sociale e politica dei Palestinesi attraverso il significato del termine “Sumud” una sorta di "resistenza attiva", di resilienza, che invitiamo ad approfondire leggendo i testi di Samah Jabr*. Una denuncia del colonialismo come elemento sempre sotto traccia nella narrazione filo-sionista, ma fondamentale per la comprensione dell’occupazione, il ruolo delle donne nei processi di resistenza, la vita spezzata delle bambine e bambini palestinesi; Samah Jabr ha raccontato il suo lavoro quotidiano con pazienti di tutte le età, oppressi da decenni di sopraffazioni, torture, restrizioni, angherie di ogni genere. Ha raccontato come il concetto di salute, fisica e mentale, non dipenda in Palestina dall’applicazione di rigidi protocolli psichiatrici, bensì dalla capacità di saper opporre una sana azione di resistenza fisica e psichica, individuale e collettiva.
Quattro iniziative eccezionali che speriamo poter riproporre con la presenza di Samah.

*Video iniziativa a Milano* https://youtu.be/AgZNZKmBxOI
*Video iniziativa a Piacenza* https://www.facebook.com/amnestypiacenza/videos/1218250102474879/?extid=CL-UNK-UNK-UNK-AN_GK0T-GK1C *Video iniziativa a Pisa* https://www.youtube.com/watch?v=HhBQ-HoQ8Cc
*Registrazione iniziativa a Firenze* https://drive.proton.me/urls/V6JJYQ93AR#9IH1jp0t116A


Milano: CSA Vittoria – Salaam Ragazzi dell’Olivo Milano Onlus
Piacenza: Salaam, Ragazzi dell’Olivo Piacenza – Amnesty International Piacenza – Donne in Nero di Piacenza
Pisa: Studentə per la Palestina di Pisa e Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud
Firenze: CPA Firenze Sud

* libri di Samah Jabr tradotti in italiano:

Dietro i fronti, Sensibili alle foglie, 2019
Sumud, Sensibili alle foglie, 2021

giovedì 11 aprile 2024



LUNEDI’ 15 aprile 2024 ALLE ORE 21.00

                                                                                                                                                                                                                è convocata:

 

ASSEMBLEA ORDINARIA DEI SOCI  DI SALAAM

 

presso la sede legale di Salaam: via Guglielmo Pepe/angolo via Carmagnola- Milano  Ingresso da Libreria Les Mots (fermate M2-M5 Garibaldi), 

 

con il seguente o.d.g.:

 

 -  approvazione del bilancio consuntivo 2023 e preventivo 2024;

-   approvazione dell’importo della quota associativa 2024;

-   attività svolte e progetti futuri con le associazioni palestinesi;

-   varie ed eventuali.

 

Siete tutte/i invitate/i a partecipare.

Hanno diritto di voto tutti i soci maggiorenni in regola con il pagamento della quota sociale.

 

 

Vi invitiamo a devolvere il vostro 5 PER MILLE  A SALAAM, perché “le bambine e i bambini palestinesi possano crescere liberi nella loro terra”.

CODICE FISCALE :    9 7 1 30 3 6 0 1 5 5

 


giovedì 4 aprile 2024

Partecipiamo tutte e tutti alla 26esima mobilitazione in solidarietà al popolo Palestinese

 


Partecipiamo tutte e tutti alla 26esima mobilitazione in solidarietà al popolo Palestinese con le Organizzazioni e le Comunità Palestinesi con uno spezzone nel corteo contro i CPR.

SABATO 6 APRILE CORTEO

CONCENTRAMENTO ore 15,00 in Piazza Tricolore a Milano.

No ai CPR e al razzismo di stato

L’Italia è entrata in guerra ed è complice del Genocidio

Fermiamo il Genocidio e la Pulizia Etnica in Palestina

 




sabato 30 marzo 2024


 


                        

Salaam Ragazzi dell’Olivo e Csa Vittoria

organizzano

MARTEDI 9 APRILE ORE 21,00

un incontro/confronto in presenza con

SAMAH JABR

psicoterapeuta e scrittrice Palestinese di Gerusalemme


Dopo aver diretto per 10 anni il centro di salute mentale del distretto di Ramallah, è diventata presidente dell'Unità di salute mentale presso il Ministero della Salute Palestinese. Samah ha anche scritto 2 libri “Dietro i Fronti” e “Sumud resistere all’occupazione” che possiamo certamente definire dei manifesti dell’orgoglio e della dignità Palestinese. Attingendo alle sue osservazioni cliniche e attualizzando il discorso di Frantz Fanon, testimonia della vita quotidiana nella Palestina occupata, invitandoci a riflettere su salute mentale, colonialismo e diritti umani.

Ma ora il popolo Palestinese è sotto l’attacco Genocida dell’entità sionista israeliana e la sua presenza assume un grandissimo valore di testimonianza.

“... Noi, palestinesi, assomigliamo a dei papaveri rossi, dalla vita breve e fragile. La comunità internazionale non è impressionata dalla nostra bellezza e trascura di tutelarci. Al contrario, ci dice spesso che la nostra aspirazione alla liberazione è assurda e non può fiorire. Ciò nonostante, noi abbiamo fiducia nella nostra capacità collettiva di abbellire il versante brullo della montagna e di ispirare una primavera rivoluzionaria agli oppressi della terra”.



FERMIAMO IL GENOCIDIO

PER IL DIRITTO ALL’ESISTENZA, ALLA RESISTENZA ALLA LIBERA AUTODETERMINAZIONE DEL POPOLO PALESTINESE.

Martedi 9 aprile al

Csa Vittoria via Friuli angolo via Muratori Milano

 

Disponibili i libri di Samah Jabr pubblicati da “Sensibili alle Foglie”


lunedì 25 marzo 2024

 

Se il genocidio è un rumore di fondo
di Naomi Klein



È una tradizione degli Oscar: un discorso politico squarcia il velo della mondanità e dell’autocelebrazione. Ne scaturiscono reazioni contrastanti. Alcuni lodano l’oratore, altri lo ritengono l’usurpatore
egoista di una notte di celebrazioni. Poi tutti girano pagina.

Eppure sospetto che l’impatto delle parole del regista Jonathan Glazer, che il 10 marzo hanno fermato il tempo alla cerimonia di premiazione di Los Angeles, durerà molto più a lungo, e il loro significato sarà oggetto di analisi per anni.

Glazer stava ritirando il premio per il miglior film internazionale per La zona d’interesse, ispirato alla storia di Rudolf Höss, il comandante del campo di concentramento di Auschwitz. Il film segue l’idilliaca vita domestica di Höss con la moglie e i figli, che si svolge in una residenza signorile con giardino adiacente al campo di concentramento.

Glazer ha descritto i suoi personaggi non come mostri, ma come “orrori non-pensanti, borghesi, ambiziosi-arrivisti”, persone capaci di trasformare il male in rumore di fondo.

Prima della cerimonia del 10 marzo, La zona d’interesse era già stato acclamato da molte star del mondo del cinema. Alfonso Cuarón, il regista premio Oscar per Roma, l’ha definito “probabilmente il film più importante di questo secolo”.

Steven Spielberg l’ha descritto come “il miglior film sull’Olocausto che io abbia visto dopo il mio”, riferendosi a Schindler’s list, che sbancò agli Oscar trent’anni fa. Ma mentre il trionfo di Schindler’s
list rappresentò un momento di unità per la maggioranza della comunità ebraica, La zona d’interesse capita in un momento diverso.

Oggi infuria il dibattito su come debbano essere ricordate le atrocità naziste: l’Olocausto dovrebbe essere considerato solo un dramma degli ebrei, o come qualcosa di più universale? Fu una lacerazione unica della storia europea, oppure un ritorno a casa dei genocidi coloniali, insieme
alle logiche e alle teorie razziali che ne erano alla base? Quel “mai più” significa mai più per tutti o mai più per gli ebrei, una promessa che rende Israele intoccabile?

Questi conflitti sull’universalismo del trauma, sull’eccezionalissimo esulla comparazione sono al centro dell’accusa di genocidio mossa dal Sudafrica a Israele presso la Corte internazionale di giustizia, e stanno lacerando le comunità ebraiche in tutto il mondo.

In un minuto Glazer ha coraggiosamente preso posizione su ciascuna di queste dispute. “Tutte le nostre scelte sono state fatte per riflettere e metterci di fronte al presente, non per dire ‘guardate cos’hanno fatto allora’, ma piuttosto ‘guardate cosa facciamo adesso’”, ha detto, sbarazzandosi dell’idea che paragonare gli orrori di oggi ai crimini nazisti significhi di per sé minimizzare, e non lasciando dubbi sul fatto che fosse sua intenzione tracciare una continuità tra il passato mostruoso e il nostro mostruoso presente.

Ed è andato oltre: “Siamo qui in quanto uomini che rifiutano di lasciar manipolare le proprie identità ebraiche e l’Olocausto da un’occupazione che ha trascinato nel conflitto tante persone innocenti, sia le vittime del 7 ottobre in Israele sia quelle dell’attacco in corso a Gaza”.

Per il regista Israele non può passarla liscia, e non è etico usare il trauma dell’Olocausto come giustificazione o copertura per le atrocità commesse oggi dallo stato israeliano.

Altri hanno sostenuto queste argomentazioni in passato, e in tanti hanno pagato a caro prezzo, soprattutto se palestinesi, arabi o musulmani.

Glazer ha sganciato la sua bomba retorica protetto da un’armatura identitaria: si è presentato alla platea come un uomo ebreo bianco e di successo – con al suo fianco altri due uomini ebrei bianchi e di successo – che, insieme, avevano fatto un film sull’Olocausto. E questo privilegio non l’ha messo al riparo dall’ondata di calunnie che hanno travisato le sue parole affermando che stava ripudiando la sua identità ebraica, un’accusa che rafforza la tesi del regista.

Altrettanto significativo è quello che è successo dopo il suo intervento. Appena Glazer ha finito il discorso – dedicando il premio ad Aleksandra Bystroń Kołodziejczyk, una donna polacca che di nascostoportava da mangiare ai prigionieri di Auschwitz e che combatté i nazisti tra le file dell’esercito polacco – sul palco sono saliti gli attori Ryan Gosling ed Emily Blunt.

Senza neppure una pausa pubblicitaria, siamo stati catapultati in una gag sul fenomeno “Barbenheimer”, con Gosling che dice a Blunt che Oppenheimer, il film sull’invenzione di un’arma di distruzione di massa in cui lei ha recitato, avrebbe sfruttato il successo di Barbie al botteghino, e Blunt che accusa Gosling di essersi dipinto degli addominali finti.

All’inizio ho temuto che questo improbabile accostamento avrebbe indebolito l’intervento di Glazer: come potevano coesistere le strazianti realtà appena invocate con questa energia da ballo del liceo californiano?

Poi ho capito: l’artificio scintillante che ha incorniciato quel discorso aiutava in realtà a ribadire il concetto. “Il genocidio diventa il sottofondo della loro vita”: Glazer ha descritto così l’atmosfera del
suo film, dove i personaggi badano ai loro problemi quotidiani – figli insonni, una madre incontentabile, l’infedeltà – all’ombra delle ciminiere che sbuffano resti umani.

Queste persone non ignorano che al di là del loro giardino stia operando una macchina di morte su scala industriale. Semplicemente hanno imparato a vivere delle vite appaganti sullo sfondo di un genocidio.

È questo l’aspetto del film di Glazer che appare più contemporaneo.
Dopo più di cinque mesi di massacri quotidiani a Gaza, con Israele che ignora gli ordini della Corte internazionale di giustizia e i governi occidentali che lo rimproverano bonariamente continuando a inviargli armi, il genocidio sta diventando ancora una volta un rumore di fondo.

Glazer ha sottolineato che il soggetto del suo film non è l’Olocausto, ma qualcosa di più duraturo e pervasivo: la capacità umana di convivere con le atrocità, di farci pace, di trarne un beneficio.

All’anteprima di maggio, prima dell’attacco di Hamas del 7 ottobre e prima dell’aggressione di Israele a Gaza, si poteva considerare il film come un’opera intellettuale da contemplare con distacco. Le persone che dalla platea del festival di Cannes hanno accolto La zona d’interesse con un applauso di sei minuti probabilmente si sentivano al sicuro ad accarezzare la sfida di Glazer.

Forse alcuni avranno riflettuto su quanto ci siamo assuefatti alle nuove imbarcazioni cariche di persone lasciate annegare nel Mediterraneo. O forse avranno pensato ai jet privati che li avevano portati in Francia e a come le loro emissioni sono legate alla scomparsa delle fonti di sostentamento per le persone povere in luoghi lontani.

Glazer voleva che il suo film provocasse questo genere di pensieri scomodi. Però, da quando è arrivato nei cinema a dicembre, la sfida con cui il regista invitava gli spettatori a contemplare l’Höss che è dentro
di noi ci ha toccato molto di più.

La maggior parte degli artisti tenta d’intercettare lo spirito dei tempi, ma La zona d’interesse potrebbe aver risentito di qualcosa di raro: un eccesso di rilevanza e di attualità.


In una delle scene più memorabili del film un pacco di vestiti e biancheria femminile rubati agli internati del campo arriva in casa Höss. La moglie del comandante, Hedwig (interpretata da Sandra Hüller),
stabilisce che tutte, comprese le domestiche, possono scegliere un capo.
Lei tiene per sé una pelliccia, e prova perfino il rossetto che trova in una tasca.

È questa intimità con i morti a essere agghiacciante. E non ho idea di come qualcuno possa guardare questa scena e non pensare ai soldati israeliani che si sono filmati mentre frugavano nella biancheria delle palestinesi a Gaza o mentre si vantavano di rubare scarpe e gioielli per le loro fidanzate o mentre si facevano selfie di gruppo con le macerie di Gaza sullo sfondo.

Sono tanti questi echi che il capolavoro di Glazer sembra un documentario. È come se, girando La zona d’interesse con lo stile di un reality show, con telecamere nascoste nella casa e nel giardino (il
regista ha parlato di “Grande fratello nella casa nazista”), il film avesse anticipato il primo genocidio in diretta streaming.

Tutti quelli che conosco che hanno guardato il film non sono riusciti a pensare ad altro che a Gaza. Questo non vuol dire stabilire un paragone con Auschwitz. Non esistono due genocidi identici. Ma il motivo stesso per cui è stato costruito l’edificio del diritto internazionale umanitario era proprio darci gli strumenti per riconoscere alcuni elementi distintivi.

E alcuni di essi – il muro, il ghetto, le uccisioni di massa, l’intento di sterminio più volte dichiarato, la riduzione alla fame, il saccheggio, la disumanizzazione, e l’umiliazione – si stanno ripetendo.
E allo stesso modo è così che il genocidio diventa un sottofondo, è così che quelli di noi un po’ più lontani da quei muri possono bloccare le immagini, spegnere le grida e semplicemente andare avanti.

Ed ecco perché l’Academy ha rafforzato il messaggio di Glazer con quel brusco passaggio a “Barbenheimer”. L’atrocità sta di nuovo diventando un sottofondo.

Cosa possiamo fare per interrompere la normalizzazione? In tanti stanno offrendo le loro risposte con proteste, con la disobbedienza civile, inviando convogli di aiuti a Gaza o raccogliendo fondi. Ma non basta.

Guardando gli Oscar, dove Glazer è stato l’unico nella passerella di ricchi a parlare di Gaza, mi è tornato in mente che erano passate due settimane da quando Aaron Bushnell, un soldato di 25 anni dell’aviazione statunitense, si è dato fuoco davanti all’ambasciata israeliana a Washington.

Non voglio che nessun altro metta in atto quella spaventosa forma di protesta. Ma dovremmo meditare sulla dichiarazione che Bushnell ha lasciato, parole che considero un finale contemporaneo del film di
Glazer: “Molti di noi si chiedono: ‘Cosa farei se vivessi durante la schiavitù? O durante l’apartheid? Cosa farei se il mio paese stesse commettendo un genocidio?’. La risposta è: lo stai facendo. Proprio in
questo istante”.

* da The Guardian

Scolpire la liberazione: le storie di Marco Cavallo e del Cavallo di Battaglia di Jenin   di Samah Jabr


Nelle storie di resilienza e resistenza sono emersi molti simboli degni di nota. Per quanto mi riguarda, due di essi sono stati delle statue di cavalli – una scultura chiamata Marco Cavallo e l’altra nota come Al-Hissan, il Cavallo di Battaglia di Jenin. Le loro storie intrecciano insieme i fili dell'arte, del simbolismo e un intricato mix di fattori sociali e politici che modellano la salute mentale. Le storie di queste due sculture offrono una visione profonda dell'universale necessità umana di esprimersi e delle sfide uniche affrontate dalle persone che vivono sotto oppressione.

Immaginatevi tra le mura del manicomio San Giovanni di Trieste, dove si erge la scultura chiamata Marco Cavallo, un faro di speranza nel cuore dell’avversità. Costruito nel 1973 grazie alla collaborazione di pazienti, artisti e staff, questo maestoso cavallo blu simboleggia il viaggio trasformativo della de-istituzionalizzazione che ha attraversato i servizi psichiatrici italiani. Sotto la guida del visionario Franco Basaglia, il direttore del manicomio, la statua Marco Cavallo è diventata più di una semplice scultura; è diventata una testimonianza del potere terapeutico dell’arte e della comunità nell'ambito della salute mentale. Intitolata al suo predecessore equino, Marco il cavallo, questa scultura incarna il desiderio di libertà e dignità all'interno dei confini del manicomio, segnando profondamente la svolta verso la ri-connessione degli internati con il mondo esterno. 

Ora spostate il vostro sguardo sulle strade martoriate di Jenin, dove la comunità palestinese ha assistito alla nascita di un altro simbolo: il Cavallo di Battaglia di Jenin. Ergendosi tra i detriti del conflitto, questa scultura alta 16 piedi (ca. 4,8 metri), ricavata dai resti metallici delle ambulanze distrutte, è diventata un faro di resilienza e sfida. Progettato dall’artista tedesco Thomas Klipper, in collaborazione con i bambini di Jenin – bambini che hanno vissuto gli orrori del massacro del 2002 – Al-Hissan incarnava la capacità dello spirito umano di superare la tragedia. Eppure, in una crudele torsione del destino, l’esercito israeliano ha preso di mira questo cavallo simbolico, cercando di cancellare non solo la sua presenza fisica, ma anche la memoria della forza e dell’identità palestinesi che quest’opera d’arte rappresentava. La statua è stata distrutta. 



I destini contrastanti di Marco Cavallo e Al-Hissan ci consentono di vedere le lotte affrontate dai palestinesi alle prese con la perdita e l'oppressione. Mentre Marco Cavallo simboleggia la liberazione all’interno delle mura del manicomio, la distruzione di Al-Hissan riflette la battaglia in corso contro la violenza dei coloni e il tentativo israeliano di cancellare la storia e l’identità palestinesi. 

I simboli hanno una profonda importanza psicologica, soprattutto di fronte alle avversità. Essi diventano contenitori di narrazioni soppresse e affermazioni di identità, agendo come potenti forme di resistenza contro la cancellazione. In Palestina, dove i fattori politici influenzano pesantemente la salute mentale, l’arte e il simbolismo emergono come risorse vitali per l’espressione e la guarigione, sollecitando interventi culturalmente sensibili e contestualmente rilevanti. 

Da una prospettiva umana, sia Marco Cavallo sia Al-Hissan sono veicoli per l’innata necessità umana di simbolismo e memoria collettiva nei momenti traumatici. Mentre Marco Cavallo rappresenta il progresso e l'emancipazione nel campo della salute mentale, la distruzione di Al-Hissan riflette il perdurante trauma sopportato dalle comunità palestinesi.

Tuttavia, un simbolo non può essere distrutto. Le storie di Marco Cavallo e del Cavallo di Battaglia di Jenin offrono nuove e approfondite consapevolezze sulla resilienza dello spirito umano e sulla potenza della memoria collettiva. Esse ci ricordano il ruolo fondamentale che i simboli svolgono nella salute mentale e mettono in evidenza l'urgenza di offrire un supporto completo alle comunità colpite da conflitti e oppressioni. Riflettendo sulle loro storie, ci torna in mente il perdurante significato dei simboli nella lotta per la libertà e la giustizia, e il profondo impatto che essi hanno sulle comunità oppresse in tutto il mondo. 

Samah Jabr MD, Head of Mental Health Unit, MoH 

Psychiatrist and Psychotherapist 

Assistant Clinical Professor, George Washington University 

https://linktr.ee/samahjabr 

Titolo originale: Sculpting Liberation: Tales of Marco Cavallo and the Jenin Battle Horse

lunedì 11 marzo 2024

Dal confine egiziano di Rafah

 

Siamo tornati dall’Egitto ieri sera, 6 marzo 2024

“Non troviamo più aggettivi per descrivere cosa sta succedendo nella Striscia di Gaza” ci ha detto il Direttore regionale dell’OMS. Catastrofe, apocalisse, niente restituisce l’orrore di quello che Israele sta imponendo a milioni di persone dentro la Striscia.

Il valico di Rafah segna il confine brevissimo tra la vita e la morte. Da una parte chi ha bisogno urgentissimo di cure, cibo, acqua, tende, coperte, ambulanze, dall’altra parte i farmaci, i pacchi alimentari, gli equipaggiamenti per costruire ripari minimamente dignitosi, le ambulanze impolverate dall’attesa.

Nel magazzino dove la Mezzaluna Rossa Egiziana custodisce i beni che vengono rifiutati ai controlli israeliani abbiamo visto bombole di ossigeno, incubatrici, stampelle, generatori e frigoriferi alimentati da pannelli solari, pasticche e macchinari per la potabilizzazione dell’acqua e molto, molto altro. Ci hanno detto che alcuni giorni fa un intero camion è stato rimandato indietro perché conteneva merendine al cioccolato, considerate beni di lusso, incompatibili con l’assistenza umanitaria. Negli ultimi giorni stanno tornando indietro anche i datteri. A giorni inizia il Ramadan, e il dattero, insieme ad un bicchiere di acqua, è tradizionalmente il gesto con cui il digiuno viene rotto al tramonto del sole.

Per usare le parole di una delle esperte di diritto internazionale che erano con noi, abbiamo visto quanto impegno e sadica precisione siano stati impiegati per costruire un sistema pensato per non avere alcuna possibilità di funzionare.

Abbiamo visto il muro lunghissimo che l’Egitto sta costruendo, e i campi di accoglienza in preparazione, se dovesse succedere il peggio. Abbiamo visto le persone che lavorano al valico stravolte da un impegno incessante che non può bastare. Siamo stati lì alcune ore, e abbiamo visto pochissimi camion partire, e non alla volta di Gaza ma verso i controlli israeliani, a Nizana o Karem abu Salem, da dove potrebbero dover tornare indietro al magazzino degli oggetti rifiutati. Non abbiamo visto neppure una persona entrare o uscire.

Sappiamo fin troppo bene che tutto questo non è iniziato il 7 ottobre. Che la punizione collettiva sulla popolazione di Gaza è iniziata quasi 17 anni fa, l’occupazione militare e la colonizzazione dei territori da quasi 57 anni, il progetto di espulsione e sostituzione dei palestinesi con gli ebrei israeliani da ben prima della Nakba.

Sappiamo anche molto bene che la ferocia di Israele è il frutto della impunità che da decenni gli è garantita soprattutto dall’occidente, un “assegno in bianco” come ci hanno ricordato vari interlocutori palestinesi incontrati in questi giorni.

Sappiamo che non può esistere una “occupazione buona”, una “colonizzazione gentile”, o, come lo ha chiamato Ilan Pappe a Firenze, un “genocida democratico”. Lo abbiamo detto e denunciato da sempre, che è la coazione a ripetere che spinge l’asticella dell’orrore sempre più alto e non chi è al governo in Israele (o che le due cose sono inestricabilmente legate, come volete voi). Ma anche noi, operatori e operatrici umanitari, dobbiamo continuare a chiederci se abbiamo fatto abbastanza.

“Se Israele volesse, potrebbe far entrare domani tutto quello che serve”, hanno ribadito più e più volte le persone con cui abbiamo parlato. Due giorni fa erano 1.500 i camion pronti ad entrare per andare ai controlli, e sulla strada che dal canale di Suez porta ad Al Arish ce ne sono tantissimi altri incolonnati in attesa che si liberino i posti nei parcheggi in prossimità del valico. Tutto questo, ovviamente, ha un costo enorme, non solo in termini di vite che questi aiuti potrebbero salvare, e mette anche a rischio i materiali, esposti al caldo e alle intemperie che rischiano di renderli inutilizzabili.

Lo sapevamo, lo gridavamo, lo denunciavamo, e non da ora – da decenni. In questi giorni siamo riusciti a portare lì parlamentari e giornalisti, a vedere con i loro occhi, e a guardare i Palestinesi di Gaza – quei pochi che sono riusciti a raggiungere l’Egitto – negli occhi mentre ascoltavano, finalmente, la verità.

Un sistema sanitario che è stato deliberatamente distrutto, insieme a tutte le infrastrutture, le cisterne, gli impianti di desalinizzazione, i mulini, le panetterie, tutte le università, le scuole, gli ambulatori, le ambulanze, il patrimonio culturale…un attacco che prende di mira i civili, utilizzando non solo le bombe e l’artiglieria, ma la fame, la sete, la promiscuità, l’assenza di cure e di carburante come armi di guerra. E che le usa sempre di più via via che cresce la consapevolezza, e che aumentano le pressioni internazionali perché Israele rispetti i propri obblighi sia di parte in conflitto che di potenza occupante.

Migliaia di persone che sono morte sotto le macerie delle loro case, e che non hanno potuto essere soccorse, forse salvate, almeno sepolte. Decine e decine di operatori e operatrici delle squadre di soccorso medico uccisi mentre cercavano di raggiungere i feriti, e dopo aver comunicato all’esercito israeliano dove stavano andando e averne ottenuto l’approvazione. Moltissimi altri che sono stati arrestati, torturati, abusati anche sessualmente, per estorcere una confessione che avallasse la narrazione israeliana.

Centinaia di migliaia di persone, soprattutto nel Nord, che sopravvivono nutrendosi di cibo per animali ed erbe selvatiche. Sono già almeno 10 i bambini e le bambine morti di stenti, ma il numero non è calcolabile, perché nessuna agenzia riesce ad avere accesso a oltre metà della Striscia, a causa delle truppe israeliane che vi stazionano e che sparano a qualsiasi cosa si muova, comprese – lo sappiamo – le persone che cercano di accaparrarsi i pochissimi aiuti che riescono ad avvicinarsi. Se anche arrivasse il cessate il fuoco in questo istante, ci sarebbero almeno altre 6.000 vittime, persone già ferite che non hanno possibilità di sopravvivere, malati che non hanno ricevuto cure (come malati oncologici, malati cronici, persone anziane), persone che hanno contratto o stanno per contrarre malattie causate dalle condizioni di vita a cui sono costrette da mesi.

E poi ci sono tutte le ferite che non si vedono. L’orrore di 5 mesi di incessanti bombardamenti, la perdita di persone care, della casa, del lavoro, un anno scolastico praticamente mai iniziato, milioni di persone che da mesi non hanno 5 minuti di privacy, una doccia calda, un momento di riposo, e devono anche sentirsi “fortunate” perché vive. Almeno fino ad ora.

La carovana solidale Rafah – Gaza oltre il confine è stata la delegazione più numerosa a raggiungere Rafah dal 7 ottobre. Erano presenti le ONG di AOI, l’ARCI, Assopace, esperti ed esperte di diritto internazionale, 14 parlamentari e molti giornalisti e giornaliste. Ci siamo riusciti perché ci credevamo fortemente, e anche grazie all’indispensabile supporto della nostra Ambasciata in Egitto e dell’Ambasciata egiziana a Roma.

Non è un risultato, non era l’obiettivo, è solo un piccolo passo – necessario - di un percorso lungo che non abbiamo alcuna intenzione di fermare qui.

Cosa ci hanno chiesto tutte le persone, le organizzazioni palestinesi e internazionali che abbiamo incontrato? Di pretendere un cessate il fuoco immediato e permanente, condizione imprescindibile per portare dentro la Striscia un’assistenza umanitaria degna di questo nome. Secondo uno studio della John Hopkins University e della London School of Hygene and Tropical Desease, senza un cessate il fuoco, entro 6 mesi 85.000 persone moriranno nella Striscia, uccise dalle ferite e dagli attacchi ma anche da malattie assolutamente curabili.

Ci hanno chiesto di garantire accountability, di smettere di credere a tutto quello che Israele afferma senza fare neanche lo sforzo di produrre uno straccio di prova, di smettere di fornire armi ad Israele, di aumentare – non sospendere! – i fondi ad UNRWA, di fornire assistenza umanitaria in modo consono, dignitoso, e capillare. Via terra, come è naturale che sia, aprendo tutti i valichi. E poi di lavorare davvero per la fine dell’occupazione, per lo smantellamento del sistema di colonizzazione, per una soluzione giusta e duratura basata sulla giustizia e sul diritto internazionale, non sulla legge del più forte.

Il vicedirettore della Mezzaluna Rossa palestinese ha concluso così l’ultimo incontro del viaggio: “Noi siamo un popolo resiliente, capace di rimettersi in piedi dopo ogni difficoltà. Abbiamo solo bisogno del vostro supporto e della vostra solidarietà. Garantiteci il vostro supporto e la vostra solidarietà, e noi ci rimetteremo in piedi e ricostruiremo la Striscia di Gaza”.

Io posso solo dire grazie a tutte e tutti i miei compagni di viaggio, a tutte le persone che abbiamo incontrato, alla Palestina e ai Palestinesi, che continuano ad insegnarci la vita, la dignità, e che ancora, nonostante tutto, ci guardano negli occhi senza odio. Non lo so come fanno, ma difendere loro oggi significa salvare noi, tutti noi, l’umanità intera.

 

Ilaria Masieri  della ONG Terre des Hommes Italia.