giovedì 30 marzo 2023

Le piazze e l’occupazione

Chiara Cruciati*
Israele è scosso da un movimento che contesta la riforma della giustizia e si batte «in difesa della democrazia». Cosa significa tutto ciò in un paese che da sempre vive in uno stato d'eccezione?

L’hanno definita una protesta senza precedenti quella che da gennaio occupa le strade delle più importanti città israeliane: partita con numeri limitati, otto-novemila persone a Tel Aviv, la protesta è stata un crescendo, superando i 150mila manifestanti e assorbendo classi sociali diverse. C’è chi ha provato a fare un parallelo con il movimento delle tende, gli indignados israeliani che nel 2011 si accamparono nel centro della capitale contro carovita e diritto alla casa, per molti una chimera in un paese che dagli anni Ottanta ha virato con prepotenza verso un modello socio-economico spiccatamente neoliberista.

Un parallelo, però, è difficile da tracciare. Stavolta al cuore della mobilitazione sta tutt’altra rivendicazione, quella che il movimento ha chiamato una battaglia a difesa della democrazia israeliana messa a rischio dalla riforma della giustizia agognata dal neonato governo di ultradestra, guidato dall’immortale Benyamin Netanyahu. Che oggi è stato costretto al passo indietro: riforma temporaneamente sospesa per fermare lo sciopero generale indetto dal principale sindacato israeliano, Histadrut. Cosa accadrà nei prossimi giorni è ancora da decifrare: il collasso della maggioranza di governo non è più così improbabile.

La riforma, nelle intenzioni dell’affollata coalizione di governo, indebolirebbe i poteri della magistratura, a partire dalla sua testa, la Corte suprema. «Consiste di quattro elementi – riassumono su The Nation i due giornalisti israeliani, Meron Rapoport e Oren Ziv – Garantire al governo il controllo totale sulla nomina dei nuovi giudici; rendere quasi impossibile per la Corte suprema invalidare leggi che violano i diritti umani; permettere alla Knesset (il parlamento, ndr) di annullare tali decisioni nei rari casi in cui saranno assunte; abolire il potere delle corti di rivedere le decisioni assunte dalle autorità nazionali e locali. Nel sistema unicamerale di Israele, dove la Knesset è controllata di fatto dal governo, non c’è una costituzione e le corti sono il solo guardiano del braccio esecutivo, tali riforme darebbero al governo poteri quasi illimitati».

Con una serie di obiettivi: il premier Netanyahu sogna di affossare i processi che lo vedono imputato per corruzione; i ministri esponenti del movimento dei coloni, da Levin (giustizia) a Smotrich (finanze), sperano di poter procedere all’annessione dei Territori palestinesi occupati liberandosi di quella magistratura «liberale» che tacciano di operare come «Stato profondo”; i partiti nazionalisti-religiosi di ultradestra puntano all’affossamento dei diritti civili e di quelli delle odiate persone Lgbtqia+. 

Stavolta nelle piazze non ci sono solo attivisti riconducibili alla sinistra sionista israeliana, che dalle tende chiedeva maggiore eguaglianza sociale in un paese devastato da precarizzazione del lavoro, de-sindacalizzazione e privatizzazioni selvagge dei sistemi pensionistico, assicurativo, scolastico e sanitario. In queste settimane a sventolare la bandiera israeliana in strada e a scontrarsi con la polizia è un ampio spettro della frammentata società israeliana: giovani, classe media, dipendenti del mondo high-tech e delle start up, professionisti, intellettuali, giudici e procuratori, militari e anche una buona fetta dell’elettorato di destra che vede nella riforma il superamento di una linea rossa.

Un punto in comune, però, con gli indignati di dodici anni fa c’è: l’esclusione della questione palestinese. Nelle prime proteste, i palestinesi con cittadinanza israeliana si sono visti, qualcuno ha anche preso parola tentando di legare le rivendicazioni del movimento con il sistema di discriminazione strutturale che soffoca i palestinesi di qua e di là dal muro, dentro Israele e nei Territori occupati. Rapidamente, però, sono scomparsi. Perché questa è una mobilitazione conservatrice, volta a mantenere lo status quo attuale o, nel migliore dei casi, a rinviare a un futuro vago la questione palestinese come non fosse centrale, fondativa, della natura stessa di Israele. 

Nessuno, né chi sta al governo né chi lo contesta, intende affrontare l’elefante nella stanza, che mina le basi sia dello Stato di Israele sia dell’attuale mobilitazione: un paese che occupa e discrimina un intero popolo da 75 anni può essere una democrazia realizzata? E la presunta indipendenza del suo sistema giudiziario può permettergli di ritenersi tale?

Il ruolo del sistema giudiziario nel mantenimento dell’apartheid

Per comprendere l’oggi è imprescindibile tornare indietro di sette decenni, alla nascita di Israele e alla Nakba palestinese (la catastrofe, l’espulsione forzata dalla Palestina storica dell’80% della popolazione palestinese dell’epoca, circa un milione di persone, e lo spossessamento di beni mobili e immobili assorbiti dal nuovo Stato). A partire dal 1948, Israele ha avuto l’ovvia e impellente necessità di normare sé stesso e costruire un’impalcatura istituzionale e legislativa che dettasse il perimetro della realtà che aveva creato sul terreno. Non bastava espellere la popolazione indesiderata e sostituirla con quella voluta, serviva farlo «legalmente». 

L’occupazione e l’esproprio delle terre palestinesi e di ciò che ci stava sopra (case, palazzi del governo, campi coltivati, porti, strade, biblioteche) e la negazione del diritto al ritorno per i rifugiati palestinesi, ottenuti con  la violenza, sono stati istituzionalizzati, regolati da leggi dello Stato e salvaguardati dal neonato sistema giudiziario israeliano. 

Dal 1948 la magistratura è stata uno degli strumenti di realizzazione e sopravvivenza sia dell’occupazione militare che del sistema di segregazione etnico-confessionale portati avanti dal potere esecutivo (quello che organizzazioni internazionali come Amnesty International e Human Rights Watch e israeliane come B’Tselem definiscono regime di apartheid). 

Negli anni successivi alla Nakba, Israele ha imbastito una rete normativa atta a legittimare lo stato d’eccezione: la legge militare applicata ai palestinesi rimasti dentro i confini israeliani (con ghetti ad hoc da cui si entrava e si usciva solo con permesso dell’esercito), l’esproprio dei beni dei rifugiati all’estero e anche di coloro rimasti sul territorio (la legge degli Assenti e la legge dei Presenti-Assenti), il divieto per i profughi a tornare a casa (pena l’esecuzione sul posto o l’arresto), la differenza tra nazionalità ebraica e cittadinanza israeliana, la negazione del diritto alla cittadinanza ai palestinesi residenti a Gerusalemme est che «godono» di un mero permesso alla residenza revocabile in qualsiasi momento. 

Seguiranno altre normative, attualmente una sessantina, che in modo più o meno diretto privano i palestinesi cittadini israeliani dei diritti riconosciuti agli ebrei israeliani nell’accesso alle proprietà immobili, a determinati impieghi, al matrimonio libero con persone provenienti da paesi considerati ostili (tra cui Cisgiordania e Gaza) e al ricongiungimento familiare, all’ampliamento dei confini municipali delle comunità palestinesi sovraffollate. Fino alla più palese discriminazione istituzionale: la legge dello Stato-nazione del 2018 – che definisce Israele patria dei soli cittadini ebrei e promuove comunità solo ebraiche – è stata convalidata dalla Corte suprema nel luglio 2021.

Nessuna di queste normative, pur se trascinate di fronte ai più alti vertici della giustizia israeliana, è stata abrogata o contestata. In assenza di una Costituzione (Israele ha solo un insieme di leggi fondamentali) le corti hanno costantemente avallato e protetto l’espansione e il consolidamento della discriminazione di Stato.

«I tribunali si sono arresi, se non addirittura hanno attivamente promosso i valori della filosofia sionista  – scrive su 972mag l’attivista femminista palestinese Samah Salaime – In innumerevoli sentenze, la Corte suprema ha costantemente garantito legittimazione al calpestio dei diritti palestinesi […] Molti palestinesi vedono la lotta per il destino del sistema giudiziario come una battaglia inter-ebraica, con il movimento di opposizione che semplicemente prova a mantenere in piedi l’idea fittizia che Israele sia uno Stato “ebraico e democratico”».

Magistratura libera in uno stato d’eccezione permanente

«La parola ‘occupazione’ [nelle piazze, ndr] non viene mai pronunciata. La parola d’ordine è ‘democrazia’ – continuano Rapoport e Ziv – Secondo gli organizzatori della protesta, la Corte suprema è la guardiana dei diritti umani e dei valori liberali e la riforma distruggerà queste sacre istituzioni. Quel che chiedono è mantenere le cose così come sono». La scomparsa dei palestinesi dalla protesta è stata rapida e per molti israeliani indolore: i temi non combaciavano. Lo dimostra il caso della femminista palestinese di Haifa che ha rinunciato a parlare dal megafono dopo che gli hanno censurato mezzo discorso: sollevava il tema dell’occupazione. 

Al di là del muro, nei Territori palestinesi occupati di Cisgiordania e Gaza (Gerusalemme est è caso a parte, perché considerato da Israele territorio dello Stato e sua capitale, in violazione del diritto internazionale), il sistema giudiziario israeliano è tra i responsabili del mantenimento dell’occupazione militare, iniziata nel 1967 e considerata illegale dal diritto internazionale. Uno stato d’eccezione permanente seppur temporaneo per sua definizione: secondo coordinate apparentemente emergenziali tende verso un obiettivo strutturale, l’annessione allo Stato di Israele.

Ciò ha fatto sì che il sistema giudiziario israeliano non abbia mai contestato gli atti del potere occupante, seppur in palese violazione del diritto internazionale. Non ha messo in discussione il muro di separazione che ha annesso di fatto a Israele un altro 20% di Cisgiordania occupata, né la costruzione di colonie da parte dello Stato (pur avendo in alcuni casi chiesto lo sgombero di insediamenti messi in piedi in autonomia dal movimento dei coloni) o la sottrazione delle risorse naturali palestinesi, dai campi alle sorgenti d’acqua. Al contrario ha avallato ordini di espulsione e confisca – l’ultimo in ordine di tempo il via libera della Corte suprema dello scorso maggio allo sgombero dei dodici villaggi palestinesi di Masafer Yatta, nel sud della Cisgiordania, a favore di un poligono di tiro israeliano.

A ciò si aggiunge un imprescindibile elemento. Nella Cisgiordania occupata opera un doppio sistema giudiziario, uno civile riservato ai cittadini israeliani (i coloni presenti illegalmente sul territorio) e uno militare destinato ai palestinesi. I primi sono inquisiti e giudicati dai tribunali civili dentro Israele, i secondi da corti militari in Cisgiordania. Cambia tutto: i diritti dell’arrestato, i tempi di custodia, l’accesso alla difesa, le pene, il ricorso alla detenzione cautelare, l’età legale per distinguere un adulto da un minore. In peggio per i palestinesi, privati dei diritti riconosciuti a imputati e detenuti israeliani anche in presenza di identico reato. 

Una realtà che si trasla dentro le aule giudiziarie e raggiunge l’apice quando il crimine è commesso da un soldato di Tel Aviv: dati alla mano, raccolti da Ong palestinesi e israeliane, a fronte delle denunce palestinesi verso militari e coloni responsabili di violenze, un’inchiesta non si apre quasi mai. E se si arriva a giudizio, le pene sono infinitamente inferiori. Basti ricordare il caso del soldato Elor Azaria che nel marzo 2016 a Hebron uccise a sangue freddo il palestinese Abdul Fatah al-Sharif, ferito a terra, incapace di rappresentare alcuna minaccia: fu condannato a 18 mesi per omicidio colposo, poi ridotti a nove. In effetti un’eccezione: non perché solitamente le pene siano più alte, ma perché generalmente non si va a processo. Alla magistratura sono sufficienti i rapporti dell’esercito e le «sentenze» di auto-assoluzione.

Di fronte alla mobilitazione pro-magistratura in corso è dunque legittimo chiedersi se può davvero esistere una magistratura libera e indipendente in una situazione radicata di occupazione militare e di distinzione istituzionale dei diritti umani su base etnica e religiosa. È possibile parlare di giustizia democratica se questa avalla la violazione sistematica dei principi del diritto internazionale?

Il caso dei soldati disobbedienti

La risposta è in parte data dall’ampia partecipazione di membri dell’esercito israeliano alla protesta contro la riforma della giustizia. Scendono in piazza, giungono a «rubare» un carro armato commemorativo del 1973 per condurlo tra i manifestanti come simbolo di disobbedienza civile, rifiutano di rispettare gli ordini in aperta sfida a quella che ritengono una mossa capace di sgretolare le basi della democrazia del loro paese.

Gli stessi soldati che non si sono tirati indietro di fronte a ordini di aggressione sproporzionata contro le comunità palestinesi di Gaza o Cisgiordania, fautori pratici dell’assedio e l’occupazione dei Territori occupati e di quelli che svariati rapporti Onu e di Ong indipendenti hanno definito crimini di guerra.

Secondo esperti israeliani, la ragione sta proprio qui. La comunità internazionale impedisce che Israele venga giudicato da tribunali indipendenti, o anche solo messo sotto inchiesta, facendosi scudo con l’indipendenza della sua magistratura (ignorando i punti di cui sopra). Ovvero: Israele ha un sistema giudiziario democratico e indipendente dal potere esecutivo, può giudicare sé stesso. La percezione potrebbe cambiare con una virata palesemente illiberale come quella sognata dall’ultradestra di governo. E quei soldati potrebbero, chissà, un giorno trovarsi a rispondere dei crimini commessi contro il popolo palestinese. Difficile avvenga, ma meglio non rischiare.

Dopotutto lo pensa Moshe Ya’alon, ex ministro della difesa ed ex capo di stato maggiore, uno che dice di limitare al massimo i viaggi all’estero per paura di essere arrestato per crimini di guerra: tra gli altri, la partecipazione all’invasione del Libano nel 1982; la gestione dell’operazione Scudo Difensivo del 2002 con cui represse nel sangue la Seconda Intifada palestinese; la più mortifera operazione militare contro Gaza, Margine Protettivo nell’estate 2014. Da gennaio guida la protesta perché «non abbiamo combattuto i nemici esterni per dare il paese a questi criminali».

Così succede che nelle piazze che gridano «democrazia» nessuno ha pensato di mostrare sdegno per il pogrom che nelle stesse ore devastava la città palestinese di Huwwara, con auto e case date alle fiamme dai coloni sotto lo sguardo indulgente dell’esercito israeliano. «Questa dissonanza – spiega l’analista israeliano Michael Schaeffer Omer-Man su 972mag – dimostra che l’opposizione al piano di Netanyahu non offre una visione alternativa. Non sta suggerendo che Israele adotti una costituzione con garanzie formali di eguaglianza, diritti civili, democrazia. Non intende denunciare le aspirazioni espansioniste di Levin, Smotrich e Ben Gvir perché l’idea che la Terra di Israele appartiene al popolo ebraico è parte dell’ethos sionista. Non è capace di definire cosa sia effettivamente la democrazia ebraica se questa continua a governare anti-democraticamente milioni di palestinesi senza garantirgli eguali diritti».

*Chiara Cruciati (1983), giornalista, scrive di Medio Oriente sulle pagine del quotidiano il manifesto. È autrice con Michele Giorgio di Cinquant’anni dopo (Alegre, 2017) e Israele, mito e realtà (Alegre, 2018). Il suo ultimo libro, scritto con Rojbîn Berîtan, è La montagna sola. Gli ezidi e l’autonomia democratica di Şengal (Alegre, 2022).

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