Sostegno a Distanza
giovedì 27 maggio 2021
The Present (Il dono), della regista palestinese Farah Nabulsi
Sono davvero lieta di annunciarvi, che il 27 maggio alle ore 21 su piattaforma zoom, con accesso gratuito sarà possibile assistere alla proiezione del cortometraggio The Present (Il dono), della regista palestinese Farah Nabulsi, nominato agli Oscar di quest'anno ed ha vinto molti premi, tra cui il BAFTA 2021.
Dopo la proiezione del corto, che sarà
sottotitolato in italiano,incontreremo la regista e l'attore protagonista Saleh
Bakri, insieme al critico cinematografico Massimo Lechi.
Vi sarà traduzione simultanea
inglese-italiano-inglese, grazie a Giulia Incelli e Elisa Treggia.
The present rappresenta una faccia perversa dell'occupazione militare
israeliana, è l'odissea di un uomo con la figlia piccola che partono all'alba
per acquistare un dono per il compleanno della mamma, ma sulla loro strada vi
sono i check-point militari. Assolutamente da vedere e rivedere.
Dobbiamo ringraziare l'Arci che ci ha dato la possibilità di trasmettere su
Zoom al quale loro sono abbonati.
Ripeto indispensabile iscriversi, i posti sono 500,vi rimetto il link sul
quale dovete cliccare
https://arci-it.zoom.us/.../reg.../WN_OWB7BaKqR9-Ugo5dBpkd7g
Non mancate e condividete.
Un abbraccio
Luisa Morgantini, Presidente ASSOPACE PALESTINA
La nuova generazione palestinese scende in strada - Piero Maestri & Layla Sit Aboha 24 Maggio 2021
In Palestina in questi giorni le rivolte, gli scioperi, le manifestazioni
contro l'occupazione israeliana sono portate avanti da giovani stanchi dell'Anp
e di Hamas, slegati da qualsiasi appartenenza di fazione o partito. Così inizia
a essere anche in Italia
«La mia biografia e quella della mia famiglia sono un classico esempio
della storia vissuta da centinaia di migliaia di palestinesi, una storia
comune». È LaylaSitAboha a raccontare. Attivista delle e dei Giovani
palestinesi in Italia, è tra le organizzatrici delle manifestazioni che dalla
scorsa settimana hanno portato nelle piazze milanesi – così come in altre città
– qualche migliaio di persone, soprattutto giovani, e in gran parte cosiddette
«seconde generazioni». La incontriamo prima dell’accordo di cessate il fuoco,
mentre si stanno organizzando le proteste sotto le sedi Rai in Italia, per
farci raccontare chi sono le e i giovani palestinesi che si sono presi le
piazze mostrando una grande consapevolezza di sé e della causa palestinese.
Laila, sei nata in Italia da una famiglia italo-palestinese. Come si
intreccia la resistenza palestinese alla tua biografia e quando questo è
diventato importante per te?
Ho vissuto come gran parte dei ragazzi di seconda generazione con
un’identità ibrida tra l’Italia e il paese di origine della mia famiglia. Fino
all’adolescenza provavo addirittura fastidio verso la mia parte araba che
negavo; soprattutto mi dava fastidio avere un cognome straniero che le persone
leggono sempre in maniera sbagliata. Soprattutto alle medie desideravo avere un
cognome italiano e ho scoperto – confrontandomi con altre ragazze con origini
simili alla mia – che tutte abbiamo vissuto questa fase, la fase del non
sentirsi come le altre, malgrado mia madre sia italiana e io sia nata in
Italia.
Ho avuto la fortuna di avere un padre attivista, impegnato con l’Olp e la
storia della Palestina è sempre stata presente per me e le mie sorelle. I miei
genitori si sono conosciuti a Napoli negli anni Ottanta perché mia madre era
un’attivista per la Palestina e mio padre lavorava lì per l’Olp. Ma la
consapevolezza vera di quello che succede in Palestina l’ho avuta quando ci
sono stata, in particolare con l’ultimo viaggio fatto a Gaza. Già per poterci
andare ho avuto difficoltà, dato che Israele non mi concedeva il visto – a
differenza dei miei compagni con nomi e famiglie italiane. All’entrata nella
Striscia di Gaza ho dovuto subire un trattamento ancora più violento e
umiliante delle altre – per esempio dover rimanere in mutande e reggiseno per
ore in uno sgabuzzino, passata con una specie di scopino per scoprire se avevo
dell’esplosivo, con i soldati israeliani che non accettavano che io fossi
italiana, si rivolgevano in arabo, chiedendomi di parlare in arabo.
Quello che a me ha fatto più male – per il mio percorso di scoperta e
accettazione dell’identità palestinese – è stato dover negare la mia identità.
Mentre qui in Italia dico di esser palestinese e le persone capiscono cosa vuol
dire, in Israele, soprattutto davanti a un soldato, devo dire che mio padre e
mio nonno sono cittadini giordani – perché effettivamente lo sono diventati.
Anche a livello psicologico questa negazione crea una forte frustrazione. Mio
nonno – il padre di mio padre – era di Haifa; nel 1948 si sono trovati in piena
Nakba e la loro famiglia contadina fu espulsa e costretta a fuggire a Jenin,
dove ha conosciuto la nonna e dove si sono stabiliti. Mio padre, nato in
Palestina nel 1964, non ha un certificato di nascita, perso insieme a tutti i
documenti; dopo la guerra del ’67 e l’occupazione della Cisgiordania la sua
famiglia è scappata in Giordania. Come centinaia di migliaia di palestinesi
conserviamo il documento delle Nazioni unite che ci riconosce come rifugiati e
quando verrà attuta la risoluzione 194 potremo tornare nelle nostre case.
Prima di questi giorni convulsi stavo leggendo Ghassan Khanafani –
scrittore di grandissima potenza e capacità espressiva e per questo
neutralizzato, ucciso dai servizi israeliani. Il suo Ritorno ad Haifa racconta
il dolore e tocca la parte intima di ogni palestinese, ognuno si identifica in
quella storia. Nel 2017 con mio padre siamo stati ad Haifa, abbiamo cercato la
casa di mio nonno e l’abbiamo trovata, nel quartiere di Wadi Salif, una zona
gentrificata, meta di turismo europeo.
La generazione di mio padre è una generazione distrutta dalla vita, sono
quelli andati a combattere in Libano, che hanno fatto la prima e seconda
intifada, hanno creduto negli accordi di Oslo e dopo il loro
fallimento si sono trovati con nulla. La mia generazione, noi giovani
palestinesi italiani, abbiamo rotto con quella precedente e con una
rappresentanza palestinese che non ci rappresenta affatto – così come non
rappresenta le e i giovani palestinesi in Israele e nei territori
occupati.
In tutta la Palestina in questi giorni le rivolte, gli scioperi, le
manifestazioni sono organizzate e portate avanti dai giovani palestinesi,
slegati da qualsiasi appartenenza di fazione o partito. Le manifestazioni a
Milano e in moltissime altre città italiane hanno creato un parallelismo con
quello che succede in Palestina: noi siamo stanchi dell’Anp, siamo stanchi di
Hamas, siamo stanchi dell’occupazione israeliana, come qui siamo stanchi del
Partito democratico e di Salvini, di una concezione razzializzante ed eteronormata
della politica. Salvini dal palco della comunità ebraica romana ha voluto
attaccare le seconde generazioni. Le piazze, riempite dalle seconde
generazioni, sono le piazze del futuro, sono l’Italia del futuro.
Chi sono le e i Giovani palestinesi in Italia? Come nascono e che relazioni
politiche avete con le generazioni precedenti? Qual è stata la trasmissione di
memoria e politica che vi è arrivata?
Le e i Giovani palestinesi nascono da questa frattura che c’è qui in Europa
come in Palestina. A un certo punto abbiamo deciso di rompere con la tradizione
dei nostri genitori, perché veniamo da quella frustrazione, dalla corruzione
del governo dell’Anp nella sua collaborazione con l’occupazione israeliana, e
dal fallimento delle espressioni politiche palestinesi. Per quanto mi senta di
appartenere alla sinistra palestinese, quella esistente non mi
rappresenta politicamente e se condivido con loro percorsi di lotta penso
debba essere superato e profondamente trasformato il panorama partitico palestinese.
Non lo diciamo noi dall’Europa, ce lo stanno dicendo da Haifa, a Nazareth, Lod,
a Jenin, Nablus, Gerusalemme, da chi sta combattendo. Chi ha organizzato i riot
dei giorni scorsi non sono i partiti ma le persone che vivono e soffrono
l’occupazione quotidiana 24 ore su 24.
La politica palestinese ha sempre escluso i palestinesi residenti nei
territori del ’48, considerandoli privilegiati mentre invece vivono nel ventre
della bestia, sono loro che possono far nascere un cambiamento. Se Israele in
Europa continua a presentarsi come uno stato di diritto, la loro vita racconta
cosa significa davvero essere palestinesi in quello stato. Sta girando in
questi giorni su Instagram un video di un palestinese cittadino di Israele con
la casa circondata da coloni armati che chiama la polizia israeliana che gli
risponde di rimanere in casa. E lui dice «sono cittadino di questo paese, anche
se voi non avete previsto la mia presenza, io ho i documenti di questo paese».
Abbiamo rotto politicamente con la generazione precedente (anche se per
fortuna molte persone di questa ci ascoltano e sostengono) e sottolineiamo che
ogni parola della nostra sigla – Giovani palestinesi italiani – ha un forte
significato. Non abbiamo un’appartenenza politica e siamo all’inizio di un
percorso di consapevolezza e presa di parola. Questa rottura è molto evidente
adesso, in queste settimane si è accelerata. La maggioranza di noi è stanca, si
è stufata di una situazione di stallo; quasi tutti i nostri genitori hanno una storia
politica, ogni famiglia ha una storia politica, difficile che qualcuno sia
fuori da questi meccanismi di diaspora, di familiari ammazzati, imprigionati
ecc. Prendere parola diventa necessario per la sopravvivenza. Certamente più
avanti sarà necessario stilare un manifesto politico, trovare alcune linee di
indirizzo, perché evidentemente non siamo d’accordo su tutto.
La generazione dei vostri padri certamente si sente ancora legata alla
Palestina, è la loro identità e la loro ragione di esistenza, ma allo stesso
tempo sembra che in qualche modo si siano «adattati», abbiano subito troppo
forte il colpo della frustrazione e della disillusione…
Noi che siamo nate qui abbiamo strumenti di comunicazione che non avevano i
nostri padri. Loro erano considerati arabi, stranieri, qualcosa di diverso; noi
dalla nostra abbiamo il fatto che siamo italiani e italiane, abbiamo fatto le
scuole qui, parliamo perfettamente la lingua, conosciamo i nostri diritti e il
diritto internazionale. La nostra forza è la consapevolezza. Conosciamo anche
la storia e i fallimenti della sinistra italiana nel suo rapporto con la causa
palestinese e oggi vogliamo essere i protagonisti. Nei giorni scorsi mi ha
chiamato un esponente dei Verdi che ha organizzato la manifestazione di sabato (22
maggio) per chiedermi se volevo parlare; ma non sei tu che chiedi a me di
parlare, siamo noi che prendiamo la parola, a questo giro la voce deve essere
la nostra.
Per questo a Milano la scorsa settimana non abbiamo voluto fare un corteo
ma abbiamo preferito rimanere in piazza, per poter far esprimere chi era
presente, perché le ragazze e i ragazzi hanno bisogno di parlare, di
esprimersi. A Milano, per esempio, è intervenuto Karim dicendo che per lui
parlare davanti a 5.000 persone di suo cugino ammazzato a un chekpoint era
importante, anche sul piano psicologico. Se una ragazza o un ragazzo
marocchino, egiziano ecc. torna a casa avendo capito qualcosa in più di quello
che succede in Palestina, è già un successo. E al nostro fianco vogliamo quelli
che ci fanno parlare, che non si sovrappongo alla nostra partecipazione.
Come stavi appunto dicendo, quelle piazze hanno visto una fortissima
partecipazione di giovani e di seconde generazioni del mondo arabo e
afrodiscendenti. Perché quella presa di parola – molte di loro avevano cartelli
autoprodotti – avviene oggi e per la Palestina?
Sicuramente c’è un bisogno sociale che va oltre la causa palestinese. Non
era solo la Palestina a motivare la partecipazione in quella piazza – anche se
certamente vivono quello che succede in quel territorio come un’ingiustizia. Le
persone di seconda generazione però vivono e sentono una discriminazione anche
qui e ora: non va avanti la legge sulla cittadinanza, il loro accesso ai
diritti è sempre complicato, la trafila di permessi, documenti è sempre
difficile, conoscono la questione dei Cpr…
La loro presenza in piazza è anche legata al mondo dei social. Con
personaggi diventati leader sulla scena pubblica senza appartenere a movimenti
sociali o partiti, ma semplicemente perché hanno postato e rilanciato l’evento
per la Palestina. Tra questi Ghali che ha una sua consapevolezza di essere
italiano-tunisino, sa cosa succede in Palestina e fa anche una scelta
coraggiosa visti i suoi contratti con le major. Esiste a Milano una scena trap,
di seconde generazioni, dalla Barona, al Gratosoglio, a San Siro. La realtà ha
superato le strutture istituzionali, urbanistiche, sociali. Questa scena
musicale – che viene vissuta anche come forma di resistenza – è direttamente
patrimonio di quelle giovani e giovanissime generazioni. È importante che si
stia creando questa consapevolezza verso la questione palestinese ma in quelle
piazze non c’erano solo palestinesi, c’erano ragazze e ragazzi della regione
araba, delle comunità afrodiscendenti, razzializzate anche attraverso i mezzi
di comunicazione; c’era la comunità colombiana, che oggi è mobilitata in
solidarietà alla rivolta nel loro paese. Oltre a riconoscere l’ingiustizia
palestinese, in quella stessa ingiustizia ne riconoscono altre e provano a
prendere parola su quelle.
Sono le e i giovani delle periferie ed è importante far venire le periferie
nel centro di Milano. A San Siro abitano 80.000 «stranieri» ed è un numero
importante. Anche questa composizione urbanistica e sociale spiega cosa sta
succedendo. I Giovani democratici del Municipio 1 (centro storico) scrivono
sulle loro pagine social che sostengono i diritti dei palestinesi ma anche il
diritto di difendersi di Israele… i Giovani Democratici sono in grande maggioranza
bianchi occidentali con pieni diritti – chi vogliono rappresentare, a chi
stanno parlando? Questa parte dell’elettorato non la vedono. Il sindaco
Giuseppe Sala – che aveva invitato Ghali a Palazzo Marino, sfruttandone la
visibilità per avere appeal su quell’elettorato – aveva un’iniziativa a poche
centinaia di metri dal nostro presidio e non si è fatto vedere e ha taciuto.
Come se si vivessero due realtà parallele, quella reale e quella delle
dinamiche di potere.
Quella e altre piazze si sono distinte per un’alta partecipazione
femminile. C’erano gruppi numerosi di ragazze, molte portavano il velo, molte
altre no, e in tante hanno preso parola.
È una sfida diretta alla rappresentazione orientalista e stereotipata della
donna araba, sottomessa, con il velo, bisognosa che qualcuno prenda parola per
lei… Certamente – qui come in Palestina e nel mondo arabo – c’è un problema di
patriarcato, come esiste ovunque nel mondo. Ma le donne palestinesi e arabe non
devono essere salvate né dall’occidente né da nessuno. La maggior parte di
interventi in quella piazza erano di ragazze arabe e palestinesi, con o senza
velo. Purtroppo in altri luoghi – per esempio a Roma – la maggior parte degli
interventi è stato fatto da uomini, dai cinquant’anni in su e le e i giovani palestinesi
gli hanno dovuto strappare il microfono. Milano e altre piazze hanno
rappresentato quello che succede nel paese, con centinaia di ragazze
giovanissime non accompagnate come nella narrazione stereotipata dal padre o
dal marito, realtà che esiste indubbiamente ma la piazza ha comunicato
qualcos’altro e non si può nascondere questa realtà. Piazze simili a quelle
di Black
LivesMatter in Italia lo scorso anno che rappresentavano
chi vive in questo paese, chi ha bisogno di tutela dei propri diritti in questo
paese. La politica non può rimanere indifferente a tutto questo.
Attenzione, so benissimo che c’è una strumentalizzazione patriarcale della
donna palestinese che subisce canoni culturali e sociali molto forti – essere madre
di famiglia, produrre figli per la patria ecc. È fortissimo il patriarcato ed è
forte la visione eteronormativa, ma tra le e i cittadini palestinesi di Israele
e ora anche in Cisgiordania ci sono tante associazioni che lottano contro tutto
questo come Al Aswat, come tantissimi collettivi queer che cercano di
distruggere la versione «gay friendly» di Israele. In questi giorni ho visto i
post di molti e molte compagne palestinesi che recitavano «Palestine is a
queerissue». Trovo tutto questo molto potente, e ho imparato che se le lotte
sono intersezionali non esisterà liberazione per nessuno.
Cosa pensi della solidarietà politica e umana verso la Palestina che in
Italia non manca? Che legame avete con questa storia e cosa manca a queste
aree? Nelle manifestazioni in questi giorni abbiamo sentito ancora slogan come
«Palestina rossa» e abbiamo visto la presenza di settori politici con cui
sembra non abbiate molti legami.
Quello slogan è autoreferenziale da parte della sinistra italiana e non
solo, non parla a nessuno, non è sentito come nostro. Quello che resta della
sinistra «extraparlamentare» racconta cose che non esistono, spesso frutto di
un posizionamento ideologico. L’altro giorno una persona che si ritiene
solidale, probabilmente mai andata in Palestina, è venuta a spiegarmi che Hamas
sta facendo la resistenza e che tutti i palestinesi stanno con Hamas… C’è
qualcosa che non va nella percezione di quello che sta succedendo in quel
paese. Se tu definisci resistenza il bombardamento – che ha portato al risultato
di 58 mila sfollati e centinaia di morti – significa non aver capito nulla.
Per me resistenza è quello che stanno facendo nei territori del ’48,
riconoscere la propria identità di palestinese dentro lo stato di Israele – non
lanciare missili e fornire il pretesto di non parlare più di quello che avviene
a Gerusalemme. L’altro giorno hanno decretato ShaikJarrah zona militare come
Shuaada Street a Al Khalil/Hebron. Solo gli israeliani potranno entrare a
SheikJarrah a parte i palestinesi già residenti. Noi dobbiamo avere attenzione
su quello, sul progetto di pulizia etnica attraverso la deportazione di
palestinesi dai loro quartieri. Naturalmente associazioni di solidarietà e Ong
sono importantissime, per la loro solidarietà diretta con le persone in Palestina
e per quello che tornano a raccontare qui in Italia. Però abbiamo bisogno di
qualcosa di più. L’altro giorno abbiamo contattato un giornalista del Corriere
della sera chiedendogli di raccontare cosa sta succedendo, dandogli i
contatti di giornalisti di Al Jazeera e Associated
Press a Gaza. Come giornalista dovresti prendere parola, soprattutto
dopo il bombardamento del palazzo della stampa. La sua risposta più o meno è
stata: «ma la linea editoriale del giornale è un’altra. Se volete potete
raccontare una storia, magari quella dei bambini che soffrono ecc.». Questo
episodio mi ricorda il
monologo di RafeefZiadah. Ogni volta che bombardano Gaza ci chiedono di
raccontare una storia «umana», non di parlare di politica. Parlaci di un
bambino morto, di un bambino mutilato… ma perché non possiamo parlare di
politica, della pulizia etnica, delle deportazioni che abbiamo subito,
dell’esistenza ancora di campi profughi dopo 73 anni (in Libano come in
Cisgiordania)? Possiamo parlare dei bambini e delle loro sofferenze ma abbiamo
bisogno che qualcuno ci dia delle risposte politiche.
Alle e ai solidali chiederei innanzitutto di ascoltare le e i giovani
palestinesi, quelli che si stanno rivoltando in Palestina, ascoltare quello hanno da
dire; poi di utilizzare tutti i mezzi disponibili per raccontare la verità, far
circolare una narrativa differente da quella del momento: prendere parola
sull’ingiustizia – come insegna il lavoro della sociologa Linda Tabar. Dobbiamo
insieme costruire una struttura di rivendicazione politica.
*Piero Maestri, attivista, è stato redattore di Guerra&Pace ed
è coautore tra l’altro di #GeziPark (Alegre 2013).
Articolo tratto da https://jacobinitalia.it/
sabato 22 maggio 2021
giovedì 20 maggio 2021
EMERGENZA SANITARIA IN GAZA
La situazione sanitaria della Striscia
di Gaza provocata dall'aggressione israeliana è tragica: il sistema sanitario,
che già scontava le conseguenze degli attacchi precedenti e del blocco, è allo
stremo.
Abbiamo quindi deciso di lanciare un
appello congiunto con un nostro partner storico, l'NWRG (New Weapon Research
Group), perché è in grado di inviare fondi utilizzabili più rapidamente per le
urgenze mediche. Una parte dei contributi sarà inviata anche al REC (Remedial
Education Center) con cui condividiamo il progetto di affido a distanza, da
utilizzare per il sostegno alle famiglie da loro seguite e che hanno avuto
vittime, feriti , perso o danneggiata la casa.
APPELLO PER LA EMERGENZA SANITARIA E UMANITARIA PER GAZA
Aiutiamo ad alleviare le sofferenze del popolo di Gaza
sotto troviamo la foto di un bimbo
salvato da sotto le macerie della sua casa, 16 maggio 2021
Fonte- Days of Palestine
La operazione “Guardiani del muro”
Israeliana ha fatto più di 1442 feriti, e 213 morti fino alla mattina del 18
Maggio. Quasi la meta dei morti sono donne (36), bambini (61), anziani (16).
Almeno una metà dei feriti sono donne e bambini.
La maggioranza dei feriti richiede
operazioni chirurgiche e cure intensive per cui non ci sono abbastanza risorse
e strumenti. Tutti i feriti richiedono antibiotici e antipiretici e
antidolorifici, che mancano. Le sofferenze dei feriti ed il rischio che non ce
la facciano sono accresciuti.
Di nuovo da Gaza gli ospedali chiedono
l’aiuto internazionale perché non hanno sufficiente capacità per prendersi cura
delle vittime di questo ultimo massacro.
Di nuovo quindi, insieme noi di
Salaam-Milano e NWRG-Onlus, ci troviamo a chiedere il vostro solerte, solidale
e possibilmente forte sostegno economico.
Poiché è importante per salvare vite che
gli aiuti arrivino rapidamente, useremo il supporto di Medical Aid for
Palestine per farli giungere a destinazione, come fatto anche nelle precedenti
4 emergenze. Ne abbiamo già verificato la attuale capacità di agire ancora in
tempo reale.
Raccogliamo i fondi sul conto di NWRG e
li inoltreremo più rapidamente possibile. MAP ordinerà medicine, ossigeno e
altri strumenti necessari, appena gli comunichiamo la cifra trasferita, cosi da
tagliare i tempi per consegnare agli ospedali.
Il conto su cui versare:
NWRG (NewWeapons Research Group) ONLUS
IBAN: IT59Y0501801400000011670924 o paypal
newweapons@libero.it
Per contatti:
NWRG-onlus newweapons@libero.it
Salaam Ragazzi dell’Olivo-Comitato di Milano –Onlus comitatosalaam@gmail.com
martedì 18 maggio 2021
NOTIZIE DA GAZA
Care/i amiche e amici i Salaam,
stiamo seguendo con molta preoccupazione quanto sta succedendo in tutta la Palestina, di cui certamente siete tutte/i a conoscenza.
In
particolare siamo molto angosciati per i nostri amici del REC , i 103 bambini/e
affidati, le loro famigli e tutta la popolazione di Gaza, sottoposta , ancora
una volta, ai tremendi e devastanti bombardamenti da parte dell’esercito
israeliano.
Cerchiamo di stare in contatto (quando si riesce..) con il direttore e altri operatori del REC i quali ci hanno detto che per ora loro e le loro famiglie stanno “bene”, cioè sono salvi; purtroppo non possono allontanarsi da casa per andare a visitare le famiglie dei bambini affidati, per cui , al momento, non possiamo avere loro notizie.
I
racconti dei nostri amici del REC sono tremende; le zone maggiormente
bombardate, oltre a Gaza City, sono proprio quelle a Nord della striscia
(vicino al confine con Israele), dove si trovano loro e i nostri bambini
affidati (nel campo profughi di Jabalia e nei villaggi circostanti). I bambini
sono spaventatissimi e non sanno più come gestirli; dormono a terra vicino ai
muri o sul terrazzo d’uscita della casa, oppure escono in strada, ma non sanno
mai cosa sia meglio fare…non c’è nessun posto sicuro dove andare, dove fuggire.
Ci salutano, ogni volta, non sapendo se domani saranno ancora vivi.
Dopo che ieri era stata distrutta la torre dei media (un palazzo di 12 piani sede di Al Jazeera e di altre emittenti palestinesi e straniere) e il numero delle vittime nella striscia di Gaza erano già oltre 120 (di cui 31 bambini), stamattina ci sono arrivate altre tragiche notizie.
Stanotte
hanno bombardato (distruggendola completamente) la strada principale
che conduce all’ingresso principale dell’Ospedale di Al Shifa, ieri
avevano già distrutto l’ingresso laterale, per cui ora le autoambulanze
non possono raggiungere l’Ospedale; i soccorritori camminano sulle macerie per
alcune centinaia di metri per trasportare i feriti; anche le scorte per
l’Ospedale devono essere trasportate manualmente. Ora l’ospedale è pieno di
feriti; i pazienti COVID devono essere spostati altrove per fare posto ai
feriti.
L’Ospedale
Shifa è l’unico di Gaza attrezzato per le emergenze (come personale,
strumenti e spazio); nei giorni scorsi ha ricevuto oltre 1.100 feriti e
sta già lottando per farcela; non ci sono altre strutture in grado di fare
fronte a questa quantità di feriti in tutta la striscia di Gaza.
Nell’attacco di stanotte sono state uccise almeno altre 33 persone (di cui 12 donne e 8 bambini) , ma alle ore 13 stavano ancora dissotterrano le vittime. Tra le vittime ci sono due medici psichiatri dr.Ayman Abu Alauf e dr.Moian Al Aloul (uno di loro con la moglie e i 5 figli) che lavoravano all’Ospedale Shifa.
Ci è arrivato ora l'aggiornamento, ad oggi, riguardo le vittime nella striscia di Gaza: 188 morti (di cui 52 bambini), 1.300 feriti, 23.000 senzatetto e sfollati.
Vi daremo altre notizie quando le avremo.
Nel frattempo vi continueremo ad inviare documenti e articoli per fornirvi una informazione corretta, considerando come non lo stiano facendo la maggior parte dei mass media italiani.
il direttivo di Salaam Ragazzi dell'Olivo-Milano
Tutti noi abbiamo preparato lo zaino per fuggire in qualsiasi momento…
"Tutti noi abbiamo preparato lo zaino per fuggire in qualsiasi momento… un maledetto zaino nel quale mettiamo solo cose importanti, cose che non possono essere pesanti perché se dobbiamo uscire dalle nostre case lo dobbiamo fare correndo… e se dovessimo scappare, dove potremo andare? Qui non c’è nessun posto sicuro, qui si bombarda dappertutto. Non so, vedremo quando succederà…”
"Eccoci ancora con un’altra notte piena di bombe che cadono sulle case dei civili lasciando bambini, donne e uomini morti sotto le macerie. Ciò non vuol dire che durante il giorno questo non succede. Anzi durante il giorno l’esercito israeliano ha combinato vari massacri e quella più tragica quella al nord della Striscia di Gaza dove due genitori hanno perso tutti i loro bambini oltre a tanti altri morti che prima stavano davanti alla loro casa. (Non vi mando il video perché davvero è difficile guardalo e vedere i bambini morti con la loro mamma che grida forte e il padre disperato e non ci crede che tutto ciò stia succedendo veramente). Oltre ad un altro massacro a Rafah dove è morta una famiglia intera composta da mamma, nonna e bambini. In questo momento siamo arrivati a 87 morti e 530 feriti (...)"
Lucia scrive:
"Più di 10000 senza casa... dove vanno? E i progetti? Il
"Centro per la vita indipendente" delle donne disabili? L'asilo con
annesso il laboratorio di vestiti e giocattoli (progetto di Vento di Terra) già
distrutto e ricostruito a Erez? Ricominciare è un altro nome di resistenza, ma
il senso... va ritrovato il senso."
"Continuamente notizie disastrose, oggi la foto di un
bambino carbonizzato, non sono riuscita a guardarla. Ma nel mio hard disk ho
trovato tante foto come questa, stavamo giocando, c'era allegria, per me rimane
una delle immagini più belle del mio passaggio a Gaza.
Lucia parla di ritrovare il senso, sarà di nuovo molto difficile
e molto faticoso per una popolazione continuamente massacrata.
Voglio ricordare il suono delle risate, voglio smettere di
immaginare il frastuono delle bombe."
Yousef Hamdouna
- Cooperante di Educaid in Gaza
La vita manca di un senso di sicurezza
16 maggio 2021 -- Dr Yasser Abu Jamei
Dopo i bombardamenti di sabato nel cuore di Gaza City uccidendo almeno 43
persone tra cui 10 bambini e 16 donne, i gazaui sono nuovamente alle prese con
ricordi traumatici. Le atrocità che si stanno verificando ora portano ricordi.
Gli aerei israeliani hanno distrutto le nostre famiglie con tanti momenti
terrificanti e memorabili per decenni. Ad esempio, ancora e ancora per tre
settimane durante Cast Lead nel dicembre 2008 e gennaio 2009; sette settimane
in luglio e agosto 2014.
I blocchi di edifici collassati e i buchi di gaping in Alwehdah Street dove
c'era vita normale una settimana fa sono luoghi traumatici, scatenando ricordi
di altre atrocità precedenti.
Oggi ci sono centinaia di feriti da curare nei nostri affollati ospedali
disperatamente a corto di molte forniture a causa degli anni di assedio
israeliano. Enormi sforzi sono in corso da parte della comunità per cercare
persone sotto i rottami degli edifici.
Tra le persone uccise: Dr Moen Al-Aloul, psichiatra in pensione che ha
curato migliaia di gazaui presso il Ministero della Salute; Raja ' Abu-Alouf
una devota psicologa uccisa insieme a suo marito e ai suoi figli; Dr. Ayman Abu
Al - Ouf, con moglie e due figli, un consulente della medicina interna che
stava guidando l'equipe curando i pazienti affetti da COVID all'ospedale di
Shifa.
I ricordi di ogni trauma precedente sono impossibili da dimenticare perché
tutti noi a Gaza viviamo sempre senza senso di sicurezza. I droni israeliani
non hanno mai lasciato il cielo su di noi tra il 2014 e il 2021. Shelling ha
continuato ad accadere nelle notti a caso. Anche se il bombardamento è stato
infrequente, è bastato ogni volta per ricordare a tutti noi ciò a cui siamo
stati esposti e che saremo di nuovo.
L ' attacco del fine settimana è avvenuto senza alcun avvertimento. È
l'ennesima strage. Appena una sera prima sono state uccise dieci persone, tra
cui otto bambini e due donne. Una famiglia di sette anni è stata spazzata via,
tranne solo per il padre e un bambino di tre mesi. Il padre viveva perché non
era in casa, e il bambino è stato salvato dopo essere stato trovato sotto i
rottami, protetto dal corpo della madre.
Queste non sono scene nuove per i Gazaui, purtroppo. Questo è qualcosa che
continua a succedere in tutte queste offensive. Durante l'offensiva del 2014 è
stato riportato che 80 famiglie sono rimaste uccise senza nessuno più vivo,
solo togliendole dai registri. Nel 2014 in un solo attacco, Israele ha
distrutto un edificio di tre piani che appartengono alla mia famiglia
allargata, uccidendo 27 persone tra cui 17 bambini e 17 donne incinte. Quattro
famiglie semplicemente non c'erano più. Un padre e un figlio di quattro anni
sono stati gli unici sopravvissuti.
Ora le notizie e i timori di una possibile invasione da terra ci stanno
travolgendo con altri ricordi devastanti mentre affrontiamo ogni nuovo orrore.
Un attacco barbarico ha incluso 160 jetfighter attaccati per oltre 40
minuti nelle aree molto settentrionali della striscia di Gaza, accompagnati da
bombardamenti di artiglieria (500 conchiglie) che colpiscono il versante
orientale della città di Gaza e delle aree settentrionali. Molte case sono
state distrutte, anche se la maggior parte delle persone è stata in grado di
fuggire dalle loro case. Si stima che almeno 40.000 persone si siano dirette
ancora una volta alle scuole dell'UNRWA o dai parenti, cercando rifugio.
Per la maggior parte dei Gazaui, questo è un ricordo del primo attacco nel
2008. Era sabato alle 11.22 del mattino quando 60 jetfighter iniziarono a
bombardare la striscia di Gaza terrorizzando tutti. In quel momento, la maggior
parte degli alunni era nelle strade o rientrava dal turno di mattina
o andava al turno pomeridiano. Mentre i bambini iniziavano a correre,
terrorizzati, per strada, i loro genitori a casa erano sconvolti dal non sapere
cosa fosse successo ai loro figli.
Per le famiglie che vengono sfollate ora è un doloroso ricordo dell'enorme
dislocamento del 2014 quando 500.000 persone sono state sfollate internamente.
E quando arrivò il cessate il fuoco, 108.000 non poterono tornare nelle loro case
distrutte.
La gente ora deve avere a che fare con lo scatenarsi di tutti questi precedenti
eventi traumatici, e altro ancora. Questo rende i processi naturali di
guarigione più complicati e in alcuni casi, causa una ricaduta dei sintomi. Cerchiamo
sempre di spiegare che i Gazaui non sono in una condizione post-traumatica, ma
in una condizione in corso che necessita di maggiore attenzione.
Questo ha bisogno del giusto intervento. Non è clinico, ma intervento
morale e politico. Un intervento dal mondo esterno. Un intervento che pone fine
alla radice del problema. Un intervento che chiude l'occupazione e ci dà il diritto umano
ad una normale vita familiare radicata nel sentimento di sicurezza, sentimento che nessun
bambino o famiglia a Gaza conosce.
Molte persone della nostra comunità ci chiamano in ambulatorio sin dal
primo giorno. Alcune persone lavoravano negli ospedali, o nel settore delle
Ong. Alcuni lanciano un appello attraverso la nostra pagina Facebook chiedendo
informazioni sui servizi GCMHP perché vedono persone traumatizzate da ogni
parte, e sentono un disperato bisogno dei nostri servizi.
Il nostro staff fa parte della comunità. Alcuni di loro hanno dovuto
lasciare le proprie case. Hanno bisogno di sentirsi sicuri ed essere sicuri per
aiutare gli altri. Ma comunque, senza quella sicurezza sono ancora dedicati
all'organizzazione e alla comunità. Sentono una grande responsabilità per il
loro ruolo vitale sostenendo il benessere psicologico dei Gazaui. Sono
totalmente e instancabilmente disponibili.
Nel fine settimana abbiamo reso pubblici i numeri di cellulare della
maggior parte del nostro staff tecnico. Domenica la nostra linea libera di
pedaggio riprende l'operatività e dalle 8 alle 8 suonerà in questi giorni. La
nostra pagina FB ha iniziato a sensibilizzare i genitori su come aiutare i
bambini stressati. È vero che non abbiamo avuto la possibilità di preparare del nuovo materiale, ma la nostra biblioteca è ricchissima con i nostri prodotti
ed è ora di raccogliere la saggezza e il sostegno nella nostra biblioteca
YouTube. Forse questo non è il nostro intervento migliore, ma sicuramente è il
massimo che possiamo fare in queste circostanze per fornire ai Gazaui forza e
capacità di affrontare le loro famiglie terrorizzate.
Da domenica sera sono già stati uccisi 197 persone, tra cui 58 bambini, 34
donne, 15 anziani e 1.235 feriti. Da psichiatra posso dire che il pagamento psicologico invisibile su tutti, dai più piccoli ai più grandi, è acuto - per la
paura e lo stress.
È un imperativo morale per il mondo guardare dritto a noi, vederci e
impegnarsi a intervenire per salvare le preziose vite creative di Gaza, dando
loro il senso di sicurezza di cui ogni uomo ha bisogno.
Il Dr Abu Jamei è direttore generale del programma comunitario di salute
mentale di Gaza
Questo deve finire
Dr Yasser Abu Jamei
Psichiatra e direttore generale del Programma di
Salute Mentale della Comunità di Gaza
Sto scrivendo questa lettera guardando mio figlio di 6 anni
terrorizzato, che continua a mettere le mani sulle orecchie cercando di
bloccare i suoni del bombardamento di Israele, le mie due figlie, di 13 e 10
anni e mia moglie. Questi volti mostrano l'ansia di non sapere dove possono
essere al sicuro ora. I miei due figli più grandi, 16 e 15 anni, siedono sbalorditi
e silenziosi e so che stanno rivivendo i ricordi delle tre offensive precedenti
sulla striscia di Gaza e sui familiari che abbiamo perso. Queste sono le
sensazioni che ogni famiglia della striscia di Gaza sta vivendo.
Noi palestinesi abbiamo vissuto decenni di umiliazioni, ingiustizie e
maltrattamenti. Nel 1948, siamo stati espulsi dalla nostra terra; oltre 600
villaggi sono stati completamente distrutti; centinaia di migliaia di noi sono
stati uccisi o sradicati. Quasi ottocentomila sono finiti per vivere come
rifugiati in luoghi diversi del globo.
Questo è accaduto sotto gli occhi della Comunità Internazionale, che ci
ha promesso, uno Stato sovrano oltre un quinto della nostra patria originaria.
Quella decisione è stata accettata solo negli anni ' 1990 dai palestinesi che
credono in una soluzione in due stati.
Ventisei anni dopo, guardiamo alle condizioni dello stato di Palestina
promesso e vediamo una Cisgiordania divisa e occupata da centinaia di migliaia
di coloni che vivono in insediamenti costruiti sulle macerie delle case
palestinesi, e che stanno facendo la vita di il popolo palestinese che vive
l'inferno.
Vediamo la striscia di Gaza sotto blocco da più di 14 anni, lasciandoci
privati delle basilari condizioni di vita. Non solo, ma avendo subito tre
grandi offensive in questa piccola area che ha ucciso, distrutto e
traumatizzato migliaia di persone.
E vediamo Gerusalemme est, con i suoi luoghi più sacri sia per i
musulmani che per i cristiani che continuano a essere sotto costante minaccia,
mentre i coloni si impossessano delle case e dei quartieri palestinesi.
Una settimana fa, i coloni israeliani hanno iniziato ad attaccare lo
sceicco Jarrah cercando di conquistare più case di famiglie palestinesi. L '
hanno visto tutti. Nessuno è intervenuto.
In una delle più sacre serate del Ramadan, Israele ha deciso di
sfrattare decine di migliaia di adoratori che stavano pregando ad Al-Aqsa.
Questi erano per lo più palestinesi che vivono in Palestina ' 48-ora Israele.
Tutti hanno visto il brutale uso del potere militare da parte di Israele.
Nessuno è intervenuto.
Le scene violente nello sceicco Jarrah e nel complesso di Al-Aqsa hanno
acceso un fuoco nei cuori palestinesi non solo nella Palestina storica, ma
anche ovunque nel mondo.
Mentre manifestavamo ad Akka, Jafa, Nazareth e la Cisgiordania, i razzi
sono stati sparati da Gaza chiedendo la fine delle atrocità di Gerusalemme.
La risposta dell'esercito israeliano è stata quella di attaccare Gaza
con ancora più violenza rispetto ai terribili giorni delle precedenti
offensive. Questa volta causando la morte di più di 80 persone tra cui 17
bambini e 7 donne. I bombardamenti colpiscono i blocchi delle torri, gli
appartamenti, gli edifici governativi e della polizia e anche intere strade.
Tutti lo vedono. Nessuno interviene.
Per quanto tempo il mondo resterà seduto in ritardo mentre noi qui a
Gaza soffriamo così? Il popolo di Gaza ha bisogno di più di semplici
dichiarazioni e risoluzioni, mentre Israele riceve le armi che ci stanno
uccidendo e terrorizzando.
Sono un padre primo e uno psichiatra secondo. Il mio sogno per i miei
figli vivere, crescere, imparare, in sicurezza. Questo è lo stesso sogno di
ogni cliente che vedo. Ce ne saranno altri oggi e domani. Il mio lavoro è dare
speranza. Dirò loro quello che dico ai miei figli e a mia moglie. ′′ Poiché
questa ingiustizia per i palestinesi è andata avanti per sette decenni, ciò non
rende normale. Il mondo è sempre più pieno di persone che non lo accettano è
normale. Ci sarà un cambiamento."
Serve un'azione politica concreta ORA per porre fine non solo agli
attuali bombardamenti mortali, ma anche a questa occupazione illegale e assedio
di Gaza da parte di Israele, immediatamente.
Le nostre attuali condizioni di vita sotto l'assedio sono un affronto
alla dignità umana. Dico ai miei figli e ai miei clienti: ′′ Noi palestinesi
abbiamo il diritto di vivere come chiunque altro al mondo: vivere in pace,
dignitosamente e godere dei nostri diritti. Arriverà."
La Comunità Internazionale DEVE ORA rispettare la promessa di uno stato
palestinese sovrano. Il rispetto del diritto internazionale chiede che ogni
paese civile riconosca ora lo Stato di Palestina.
Dopo più di sette decenni ormai di occupazione e
miseria, restiamo resistenti e non molleremo mai. Ma non c'è nessun padre che
possa sopportare di vedere i propri figli vivere così.
"Datemi solo 15 minuti ancora"
Roberto Prinzi - Direttore di Nena News
"Datemi solo 15 minuti
ancora", ha implorato telefonicamente oggi pomeriggio un giornalista
dell'Associated Press (Ap) ad un ufficiale israeliano prima che i jet d'Israele
radessero al suolo la torre Jalaa, sede della sua agenzia. "Abbiamo
attrezzature, telecamere e altre cose. Le posso portare tutte fuori".
"No", fanno sapere da Israele. Poco dopo anche Jawad Mahdi - il
proprietario dello stesso edificio - ha fatto all'ufficiale la stessa
richiesta. "Rispettiamo i vostri desideri - ha detto umilmente - ma almeno
dateci 10 minuti". Un'implorazione che è stata più un'ammissione di resa,
una umiliazione e che forse riassume da sola la sperequazione di forze tra i
palestinesi e gli israeliani.
"Non ci saranno 10 minuti, nessuno
entrerà, vi abbiamo dato un'ora di tempo per evacuare tutto", ha risposto
di nuovo bruscamente l'ufficiale nella conversazione registrata e riportata da
al-Jazeera.
Su al-Jazeera in arabo, poco prima del
crollo, l'inviato racconta in diretta televisiva cosa sta succedendo. Ha la
voce che gli trema mentre risponde lentamente in arabo standard alle domande
postegli da Doha dalla presentatrice. Non si vede il suo volto perché le
telecamere puntano fisso alla torre Jalaa in attesa del momento del crollo. E'
tutto surreale: giornalisti e spettatori sono in attesa della distruzione
annunciata e imminente. Ogni tanto il corrispondente si ferma, misura le
parole, sembra sforzarsi di parlare in arabo standard e non nel quotidiano
dialetto in cui si sentirebbe più a casa. Il suo arabo è una lingua-gabbia in
cui deve rinchiudere per professionalità in parte le sue emozioni. Quella
"Torre", la sua sede lavorativa, era dopotutto una sua seconda casa.
Arriva il primo raid, il palazzo non
crolla. "La terra trema per le esplosioni forti", commenta. Poi subito
dopo il secondo colpo: "La terra ha tremato". Si ferma, dice qualcosa
in dialetto palestinese alla gente che gli è attorno e che incomincia a gridare
di rabbia contro Israele. Sembra più naturale. Arriva poi il colpo definitivo
ed è laconico il suo commento: "Inharat al binaya". "E' crollato
l'edificio". Tace. Da Doha, sede dell'emittente, la presentatrice capisce
lo stato d'animo del collega e interviene quasi a consolarlo: "Immaginiamo
quanti ricordi di quel luogo".
Le foto di giornalisti e tecnici diffuse
in queste ore con la divisa "Press" raccolti vicino allo scheletro
della Torre Jalaa sono un pugno al cuore. Non meno dei massacri dei civili che
da decine di anni si ripetono in Palestina per opera d'Israele. In una foto si
vede un gruppo di loro seduti a guardare quel che resta del loro posto di
lavoro, le poche attrezzature da un lato. Quel poco che Israele ha permesso
loro di salvare.
Le attrezzature distrutte non hanno un
prezzo economico, ma morale e umano. 10 minuti non avrebbero cambiato molto.
Non avrebbero cancellato il crimine israeliano. Eppure 10 irrilevanti minuti
per noi, avrebbero significato molto per le vittime. Avrebbero risparmiato la
chiusura di altri occhi che permettono e hanno permesso di raccontare Gaza.
Occhi che ricordano oggi al mondo del massacro della famiglia al-Hatab.
Microfoni/Bocche che registrano la voce degli oppressi assediati terra, cielo e
aria da Israele. Quelle attrezzature sono ricordi di vita andati persi. Persi
non meno come gli esseri umani di Gaza trucidati in questi anni. Sono storie,
testimonianze. Perché poi non si dica: "Il mondo non lo sapeva".
Quelle attrezzature sono il giornalismo, libertà di una narrazione diversa, che
oggi - e non solo oggi - Israele ha voluto azzerare. La stessa Israele che
scendeva in piazza con lo stesso premier di oggi nel 2015 a Parigi al grido
"Je Suis Charlie" per la libertà di espressione.
Ma Parigi è lontana. Troppo. Perché il racconto dei palestinesi
all'esterno, al mondo, fa più paura a Tel Aviv delle pietre scagliate in Cisgiordania
o dei razzi sparati da Gaza. Hai voglia di avere dalla tua parte tutti i grandi
media e i potenti del mondo: non c'è sistema difensivo Iron Dome che ferma le
migliaia di persone scese in piazza in tutto il mondo in questi giorni per
gridare: "Palestina Libera" nelle differenti lingue del pianeta. Fa
paura l'insolenza dei palestinesi di continuare - nonostante tutto - a
esistere, a parlare, a ricordare la loro storia.
"L'edificio
è crollato".
Ma se ne
costruirà a breve un altro. E' così che va avanti da oltre 70 anni in Palestina