Sostegno a Distanza
sabato 30 marzo 2024
Salaam Ragazzi dell’Olivo e Csa Vittoria
organizzano
MARTEDI 9 APRILE ORE 21,00
un incontro/confronto in presenza con
SAMAH JABR
psicoterapeuta e scrittrice Palestinese di Gerusalemme
Dopo aver diretto per 10 anni il centro di salute mentale del distretto di Ramallah, è diventata presidente dell'Unità di salute mentale presso il Ministero della Salute Palestinese. Samah ha anche scritto 2 libri “Dietro i Fronti” e “Sumud resistere all
Ma ora il popolo Palestinese è sotto l’attacco Genocida dell’entità sionista israeliana e la sua presenza assume un grandissimo valore di testimonianza.
“... Noi, palestinesi, assomigliamo a dei papaveri rossi, dalla vita breve e fragile. La comunità internazionale non è impressionata dalla nostra bellezza e trascura di tutelarci. Al contrario, ci dice spesso che la nostra aspirazione alla liberazione è assurda e non può fiorire. Ciò nonostante, noi abbiamo fiducia nella nostra capacità collettiva di abbellire il versante brullo della montagna e di ispirare una primavera rivoluzionaria agli oppressi della terra”.
FERMIAMO IL GENOCIDIO
PER IL DIRITTO ALL’ESISTENZA, ALLA RESISTENZA ALLA LIBERA AUTODETERMINAZIONE DEL POPOLO PALESTINESE.
Martedi 9 aprile al
Csa Vittoria via Friuli angolo via Muratori Milano
Disponibili i libri di Samah Jabr pubblicati da “Sensibili alle Foglie”
lunedì 25 marzo 2024
Se il genocidio
è un rumore di fondo
di Naomi Klein
È una tradizione degli Oscar: un discorso politico
squarcia il velo della mondanità e dell’autocelebrazione. Ne
scaturiscono reazioni contrastanti. Alcuni lodano l’oratore, altri lo
ritengono l’usurpatore egoista di una notte di celebrazioni. Poi tutti
girano pagina.
Eppure sospetto che l’impatto delle parole del
regista Jonathan Glazer, che il 10 marzo hanno fermato il tempo alla
cerimonia di premiazione di Los Angeles, durerà molto più a lungo, e il
loro significato sarà oggetto di analisi per anni.
Glazer stava ritirando il premio per il miglior
film internazionale per La zona d’interesse, ispirato alla storia di
Rudolf Höss, il comandante del campo di concentramento di Auschwitz. Il
film segue l’idilliaca vita domestica di Höss con la moglie e i figli,
che si svolge in una residenza signorile con giardino adiacente al campo
di concentramento.
Glazer ha descritto i suoi personaggi non come
mostri, ma come “orrori non-pensanti, borghesi, ambiziosi-arrivisti”,
persone capaci di trasformare il male in rumore di fondo.
Prima della cerimonia del 10 marzo, La zona
d’interesse era già stato acclamato da molte star del mondo del cinema.
Alfonso Cuarón, il regista premio Oscar per Roma, l’ha definito
“probabilmente il film più importante di questo secolo”.
Steven Spielberg l’ha descritto come “il miglior
film sull’Olocausto che io abbia visto dopo il mio”, riferendosi a
Schindler’s list, che sbancò agli Oscar trent’anni fa. Ma mentre il
trionfo di Schindler’s
list rappresentò un momento di unità per la
maggioranza della comunità ebraica, La zona d’interesse capita in un
momento diverso.
Oggi infuria il dibattito su come debbano essere
ricordate le atrocità naziste: l’Olocausto dovrebbe essere considerato
solo un dramma degli ebrei, o come qualcosa di più universale? Fu una
lacerazione unica della storia europea, oppure un ritorno a casa dei
genocidi coloniali, insieme
alle logiche e alle teorie razziali che ne erano
alla base? Quel “mai più” significa mai più per tutti o mai più per gli
ebrei, una promessa che rende Israele intoccabile?
Questi conflitti sull’universalismo del trauma,
sull’eccezionalissimo esulla comparazione sono al centro dell’accusa di
genocidio mossa dal Sudafrica a Israele presso la Corte internazionale
di giustizia, e stanno lacerando le comunità ebraiche in tutto il mondo.
In un minuto Glazer ha coraggiosamente preso
posizione su ciascuna di queste dispute. “Tutte le nostre scelte sono
state fatte per riflettere e metterci di fronte al presente, non per
dire ‘guardate cos’hanno fatto allora’, ma piuttosto ‘guardate cosa
facciamo adesso’”, ha detto, sbarazzandosi dell’idea che paragonare gli
orrori di oggi ai crimini nazisti significhi di per sé minimizzare, e
non lasciando dubbi sul fatto che fosse sua intenzione tracciare una
continuità tra il passato mostruoso e il nostro mostruoso presente.
Ed è andato oltre: “Siamo qui in quanto uomini che
rifiutano di lasciar manipolare le proprie identità ebraiche e
l’Olocausto da un’occupazione che ha trascinato nel conflitto tante
persone innocenti, sia le vittime del 7 ottobre in Israele sia quelle
dell’attacco in corso a Gaza”.
Per il regista Israele non può passarla liscia, e
non è etico usare il trauma dell’Olocausto come giustificazione o
copertura per le atrocità commesse oggi dallo stato israeliano.
Altri hanno sostenuto queste argomentazioni in
passato, e in tanti hanno pagato a caro prezzo, soprattutto se
palestinesi, arabi o musulmani.
Glazer ha sganciato la sua bomba retorica protetto
da un’armatura identitaria: si è presentato alla platea come un uomo
ebreo bianco e di successo – con al suo fianco altri due uomini ebrei
bianchi e di successo – che, insieme, avevano fatto un film
sull’Olocausto. E questo privilegio non l’ha messo al riparo dall’ondata
di calunnie che hanno travisato le sue parole affermando che stava
ripudiando la sua identità ebraica, un’accusa che rafforza la tesi del
regista.
Altrettanto significativo è quello che è successo
dopo il suo intervento. Appena Glazer ha finito il discorso – dedicando
il premio ad Aleksandra Bystroń Kołodziejczyk, una donna polacca che di
nascostoportava da mangiare ai prigionieri di Auschwitz e che combatté i
nazisti tra le file dell’esercito polacco – sul palco sono saliti gli
attori Ryan Gosling ed Emily Blunt.
Senza neppure una pausa pubblicitaria, siamo stati
catapultati in una gag sul fenomeno “Barbenheimer”, con Gosling che dice
a Blunt che Oppenheimer, il film sull’invenzione di un’arma di
distruzione di massa in cui lei ha recitato, avrebbe sfruttato il
successo di Barbie al botteghino, e Blunt che accusa Gosling di essersi
dipinto degli addominali finti.
All’inizio ho temuto che questo improbabile
accostamento avrebbe indebolito l’intervento di Glazer: come potevano
coesistere le strazianti realtà appena invocate con questa energia da
ballo del liceo californiano?
Poi ho capito: l’artificio scintillante che ha
incorniciato quel discorso aiutava in realtà a ribadire il concetto. “Il
genocidio diventa il sottofondo della loro vita”: Glazer ha descritto
così l’atmosfera del
suo film, dove i personaggi badano ai loro
problemi quotidiani – figli insonni, una madre incontentabile,
l’infedeltà – all’ombra delle ciminiere che sbuffano resti umani.
Queste persone non ignorano che al di là del loro
giardino stia operando una macchina di morte su scala industriale.
Semplicemente hanno imparato a vivere delle vite appaganti sullo sfondo
di un genocidio.
È questo l’aspetto del film di Glazer che appare
più contemporaneo.
Dopo più di cinque mesi di massacri quotidiani a
Gaza, con Israele che ignora gli ordini della Corte internazionale di
giustizia e i governi occidentali che lo rimproverano bonariamente
continuando a inviargli armi, il genocidio sta diventando ancora una
volta un rumore di fondo.
Glazer ha sottolineato che il soggetto del suo
film non è l’Olocausto, ma qualcosa di più duraturo e pervasivo: la
capacità umana di convivere con le atrocità, di farci pace, di trarne un
beneficio.
All’anteprima di maggio, prima dell’attacco di
Hamas del 7 ottobre e prima dell’aggressione di Israele a Gaza, si
poteva considerare il film come un’opera intellettuale da contemplare
con distacco. Le persone che dalla platea del festival di Cannes hanno
accolto La zona d’interesse con un applauso di sei minuti probabilmente
si sentivano al sicuro ad accarezzare la sfida di Glazer.
Forse alcuni avranno riflettuto su quanto ci siamo
assuefatti alle nuove imbarcazioni cariche di persone lasciate annegare
nel Mediterraneo. O forse avranno pensato ai jet privati che li avevano
portati in Francia e a come le loro emissioni sono legate alla scomparsa
delle fonti di sostentamento per le persone povere in luoghi lontani.
Glazer voleva che il suo film provocasse questo genere di
pensieri scomodi. Però, da quando è arrivato nei cinema a dicembre, la
sfida con cui il regista invitava gli spettatori a contemplare l’Höss
che è dentro
di noi ci ha toccato molto di più.
La maggior parte degli artisti tenta
d’intercettare lo spirito dei tempi, ma La zona d’interesse potrebbe
aver risentito di qualcosa di raro: un eccesso di rilevanza e di
attualità.
In una delle scene più memorabili del film un
pacco di vestiti e biancheria femminile rubati agli internati del campo
arriva in casa Höss. La moglie del comandante, Hedwig (interpretata da
Sandra Hüller),
stabilisce che tutte, comprese le domestiche,
possono scegliere un capo.
Lei tiene per sé una pelliccia, e prova perfino il
rossetto che trova in una tasca.
È questa intimità con i morti a essere
agghiacciante. E non ho idea di come qualcuno possa guardare questa
scena e non pensare ai soldati israeliani che si sono filmati mentre
frugavano nella biancheria delle palestinesi a Gaza o mentre si vantavano
di rubare scarpe e gioielli per le loro fidanzate o mentre si facevano
selfie di gruppo con le macerie di Gaza sullo sfondo.
Sono tanti questi echi che il capolavoro di Glazer
sembra un documentario. È come se, girando La zona d’interesse con lo
stile di un reality show, con telecamere nascoste nella casa e nel
giardino (il
regista ha parlato di “Grande fratello nella casa
nazista”), il film avesse anticipato il primo genocidio in diretta
streaming.
Tutti quelli che conosco che hanno guardato il
film non sono riusciti a pensare ad altro che a Gaza. Questo non vuol
dire stabilire un paragone con Auschwitz. Non esistono due genocidi
identici. Ma il motivo stesso per cui è stato costruito l’edificio del diritto
internazionale umanitario era proprio darci gli strumenti per
riconoscere alcuni elementi distintivi.
E alcuni di essi – il muro, il ghetto, le
uccisioni di massa, l’intento di sterminio più volte dichiarato, la
riduzione alla fame, il saccheggio, la disumanizzazione, e l’umiliazione
– si stanno ripetendo.
E allo stesso modo è così che il genocidio diventa
un sottofondo, è così che quelli di noi un po’ più lontani da quei muri
possono bloccare le immagini, spegnere le grida e semplicemente andare avanti.
Ed ecco perché l’Academy ha rafforzato il
messaggio di Glazer con quel brusco passaggio a “Barbenheimer”.
L’atrocità sta di nuovo diventando un sottofondo.
Cosa possiamo fare per interrompere la
normalizzazione? In tanti stanno offrendo le loro risposte con proteste,
con la disobbedienza civile, inviando convogli di aiuti a Gaza o
raccogliendo fondi. Ma non basta.
Guardando gli Oscar, dove Glazer è stato l’unico
nella passerella di ricchi a parlare di Gaza, mi è tornato in mente che
erano passate due settimane da quando Aaron Bushnell, un soldato di 25
anni dell’aviazione statunitense, si è dato fuoco davanti all’ambasciata
israeliana a Washington.
Non voglio che nessun altro metta in atto quella
spaventosa forma di protesta. Ma dovremmo meditare sulla dichiarazione
che Bushnell ha lasciato, parole che considero un finale contemporaneo
del film di
Glazer: “Molti di noi si chiedono: ‘Cosa farei se
vivessi durante la schiavitù? O durante l’apartheid? Cosa farei se il
mio paese stesse commettendo un genocidio?’. La risposta è: lo stai
facendo. Proprio in
questo istante”.
* da The Guardian
Scolpire la liberazione: le storie di Marco Cavallo e del Cavallo di Battaglia di Jenin di Samah Jabr
Immaginatevi tra le mura del manicomio San Giovanni di Trieste, dove si erge la scultura chiamata Marco Cavallo, un faro di speranza nel cuore dell’avversità. Costruito nel 1973 grazie alla collaborazione di pazienti, artisti e staff, questo maestoso cavallo blu simboleggia il viaggio trasformativo della de-istituzionalizzazione che ha attraversato i servizi psichiatrici italiani. Sotto la guida del visionario Franco Basaglia, il direttore del manicomio, la statua Marco Cavallo è diventata più di una semplice scultura; è diventata una testimonianza del potere terapeutico dell’arte e della comunità nell'ambito della salute mentale. Intitolata al suo predecessore equino, Marco il cavallo, questa scultura incarna il desiderio di libertà e dignità all'interno dei confini del manicomio, segnando profondamente la svolta verso la ri-connessione degli internati con il mondo esterno.
Ora spostate il vostro sguardo sulle strade martoriate di Jenin, dove la comunità palestinese ha assistito alla nascita di un altro simbolo: il Cavallo di Battaglia di Jenin. Ergendosi tra i detriti del conflitto, questa scultura alta 16 piedi (ca. 4,8 metri), ricavata dai resti metallici delle ambulanze distrutte, è diventata un faro di resilienza e sfida. Progettato dall’artista tedesco Thomas Klipper, in collaborazione con i bambini di Jenin – bambini che hanno vissuto gli orrori del massacro del 2002 – Al-Hissan incarnava la capacità dello spirito umano di superare la tragedia. Eppure, in una crudele torsione del destino, l’esercito israeliano ha preso di mira questo cavallo simbolico, cercando di cancellare non solo la sua presenza fisica, ma anche la memoria della forza e dell’identità palestinesi che quest’opera d’arte rappresentava. La statua è stata distrutta.
I destini contrastanti di Marco Cavallo e Al-Hissan ci consentono di vedere le lotte affrontate dai palestinesi alle prese con la perdita e l'oppressione. Mentre Marco Cavallo simboleggia la liberazione all’interno delle mura del manicomio, la distruzione di Al-Hissan riflette la battaglia in corso contro la violenza dei coloni e il tentativo israeliano di cancellare la storia e l’identità palestinesi.
I simboli hanno una profonda importanza psicologica, soprattutto di fronte alle avversità. Essi diventano contenitori di narrazioni soppresse e affermazioni di identità, agendo come potenti forme di resistenza contro la cancellazione. In Palestina, dove i fattori politici influenzano pesantemente la salute mentale, l’arte e il simbolismo emergono come risorse vitali per l’espressione e la guarigione, sollecitando interventi culturalmente sensibili e contestualmente rilevanti.
Da una prospettiva umana, sia Marco Cavallo sia Al-Hissan sono veicoli per l’innata necessità umana di simbolismo e memoria collettiva nei momenti traumatici. Mentre Marco Cavallo rappresenta il progresso e l'emancipazione nel campo della salute mentale, la distruzione di Al-Hissan riflette il perdurante trauma sopportato dalle comunità palestinesi.
Tuttavia, un simbolo non può essere distrutto. Le storie di Marco Cavallo e del Cavallo di Battaglia di Jenin offrono nuove e approfondite consapevolezze sulla resilienza dello spirito umano e sulla potenza della memoria collettiva. Esse ci ricordano il ruolo fondamentale che i simboli svolgono nella salute mentale e mettono in evidenza l'urgenza di offrire un supporto completo alle comunità colpite da conflitti e oppressioni. Riflettendo sulle loro storie, ci torna in mente il perdurante significato dei simboli nella lotta per la libertà e la giustizia, e il profondo impatto che essi hanno sulle comunità oppresse in tutto il mondo.
Samah Jabr MD, Head of Mental Health Unit, MoH
Psychiatrist and Psychotherapist
Assistant Clinical Professor, George Washington University
https://linktr.ee/samahjabr
Titolo originale: Sculpting Liberation: Tales of Marco Cavallo and the Jenin Battle Horse
lunedì 11 marzo 2024
Dal confine egiziano di Rafah
Siamo tornati dall’Egitto ieri sera, 6 marzo 2024
“Non troviamo più aggettivi per descrivere cosa sta succedendo nella
Striscia di Gaza” ci ha detto il Direttore regionale dell’OMS. Catastrofe,
apocalisse, niente restituisce l’orrore di quello che Israele sta imponendo a
milioni di persone dentro la Striscia.
Il valico di Rafah segna il confine brevissimo tra la vita e la morte. Da
una parte chi ha bisogno urgentissimo di cure, cibo, acqua, tende, coperte,
ambulanze, dall’altra parte i farmaci, i pacchi alimentari, gli equipaggiamenti
per costruire ripari minimamente dignitosi, le ambulanze impolverate
dall’attesa.
Nel magazzino dove la Mezzaluna Rossa Egiziana custodisce i beni che
vengono rifiutati ai controlli israeliani abbiamo visto bombole di ossigeno,
incubatrici, stampelle, generatori e frigoriferi alimentati da pannelli solari,
pasticche e macchinari per la potabilizzazione dell’acqua e molto, molto altro.
Ci hanno detto che alcuni giorni fa un intero camion è stato rimandato indietro
perché conteneva merendine al cioccolato, considerate beni di lusso,
incompatibili con l’assistenza umanitaria. Negli ultimi giorni stanno tornando
indietro anche i datteri. A giorni inizia il Ramadan, e il dattero, insieme ad
un bicchiere di acqua, è tradizionalmente il gesto con cui il digiuno viene
rotto al tramonto del sole.
Per usare le parole di una delle esperte di diritto internazionale che
erano con noi, abbiamo visto quanto impegno e sadica precisione siano stati
impiegati per costruire un sistema pensato per non avere alcuna possibilità di
funzionare.
Abbiamo visto il muro lunghissimo che l’Egitto sta costruendo, e i campi di
accoglienza in preparazione, se dovesse succedere il peggio. Abbiamo visto le
persone che lavorano al valico stravolte da un impegno incessante che non può
bastare. Siamo stati lì alcune ore, e abbiamo visto pochissimi camion partire,
e non alla volta di Gaza ma verso i controlli israeliani, a Nizana o Karem abu
Salem, da dove potrebbero dover tornare indietro al magazzino degli oggetti
rifiutati. Non abbiamo visto neppure una persona entrare o uscire.
Sappiamo fin troppo bene che tutto questo non è iniziato il 7 ottobre. Che
la punizione collettiva sulla popolazione di Gaza è iniziata quasi 17 anni fa,
l’occupazione militare e la colonizzazione dei territori da quasi 57 anni, il
progetto di espulsione e sostituzione dei palestinesi con gli ebrei israeliani
da ben prima della Nakba.
Sappiamo anche molto bene che la ferocia di Israele è il frutto della
impunità che da decenni gli è garantita soprattutto dall’occidente, un “assegno
in bianco” come ci hanno ricordato vari interlocutori palestinesi incontrati in
questi giorni.
Sappiamo che non può esistere una “occupazione buona”, una “colonizzazione
gentile”, o, come lo ha chiamato Ilan Pappe a Firenze, un “genocida
democratico”. Lo abbiamo detto e denunciato da sempre, che è la coazione a
ripetere che spinge l’asticella dell’orrore sempre più alto e non chi è al
governo in Israele (o che le due cose sono inestricabilmente legate, come
volete voi). Ma anche noi, operatori e operatrici umanitari, dobbiamo
continuare a chiederci se abbiamo fatto abbastanza.
“Se Israele volesse, potrebbe far entrare domani tutto quello che serve”,
hanno ribadito più e più volte le persone con cui abbiamo parlato. Due giorni
fa erano 1.500 i camion pronti ad entrare per andare ai controlli, e sulla
strada che dal canale di Suez porta ad Al Arish ce ne sono tantissimi altri
incolonnati in attesa che si liberino i posti nei parcheggi in prossimità del
valico. Tutto questo, ovviamente, ha un costo enorme, non solo in termini di
vite che questi aiuti potrebbero salvare, e mette anche a rischio i materiali,
esposti al caldo e alle intemperie che rischiano di renderli inutilizzabili.
Lo sapevamo, lo gridavamo, lo denunciavamo, e non da ora – da decenni. In
questi giorni siamo riusciti a portare lì parlamentari e giornalisti, a vedere
con i loro occhi, e a guardare i Palestinesi di Gaza – quei pochi che sono
riusciti a raggiungere l’Egitto – negli occhi mentre ascoltavano, finalmente,
la verità.
Un sistema sanitario che è stato deliberatamente distrutto, insieme a tutte
le infrastrutture, le cisterne, gli impianti di desalinizzazione, i mulini, le
panetterie, tutte le università, le scuole, gli ambulatori, le ambulanze, il
patrimonio culturale…un attacco che prende di mira i civili, utilizzando non
solo le bombe e l’artiglieria, ma la fame, la sete, la promiscuità, l’assenza
di cure e di carburante come armi di guerra. E che le usa sempre di più via via
che cresce la consapevolezza, e che aumentano le pressioni internazionali perché
Israele rispetti i propri obblighi sia di parte in conflitto che di potenza
occupante.
Migliaia di persone che sono morte sotto le macerie delle loro case, e che
non hanno potuto essere soccorse, forse salvate, almeno sepolte. Decine e
decine di operatori e operatrici delle squadre di soccorso medico uccisi mentre
cercavano di raggiungere i feriti, e dopo aver comunicato all’esercito
israeliano dove stavano andando e averne ottenuto l’approvazione. Moltissimi
altri che sono stati arrestati, torturati, abusati anche sessualmente, per
estorcere una confessione che avallasse la narrazione israeliana.
Centinaia di migliaia di persone, soprattutto nel Nord, che sopravvivono
nutrendosi di cibo per animali ed erbe selvatiche. Sono già almeno 10 i bambini
e le bambine morti di stenti, ma il numero non è calcolabile, perché nessuna
agenzia riesce ad avere accesso a oltre metà della Striscia, a causa delle
truppe israeliane che vi stazionano e che sparano a qualsiasi cosa si muova,
comprese – lo sappiamo – le persone che cercano di accaparrarsi i pochissimi
aiuti che riescono ad avvicinarsi. Se anche arrivasse il cessate il fuoco in
questo istante, ci sarebbero almeno altre 6.000 vittime, persone già ferite che
non hanno possibilità di sopravvivere, malati che non hanno ricevuto cure (come
malati oncologici, malati cronici, persone anziane), persone che hanno
contratto o stanno per contrarre malattie causate dalle condizioni di vita a
cui sono costrette da mesi.
E poi ci sono tutte le ferite che non si vedono. L’orrore di 5 mesi di
incessanti bombardamenti, la perdita di persone care, della casa, del lavoro,
un anno scolastico praticamente mai iniziato, milioni di persone che da mesi
non hanno 5 minuti di privacy, una doccia calda, un momento di riposo, e devono
anche sentirsi “fortunate” perché vive. Almeno fino ad ora.
La carovana solidale Rafah – Gaza oltre il confine è stata la delegazione
più numerosa a raggiungere Rafah dal 7 ottobre. Erano presenti le ONG di AOI,
l’ARCI, Assopace, esperti ed esperte di diritto internazionale, 14 parlamentari
e molti giornalisti e giornaliste. Ci siamo riusciti perché ci credevamo
fortemente, e anche grazie all’indispensabile supporto della nostra Ambasciata
in Egitto e dell’Ambasciata egiziana a Roma.
Non è un risultato, non era l’obiettivo, è solo un piccolo passo –
necessario - di un percorso lungo che non abbiamo alcuna intenzione di fermare
qui.
Cosa ci hanno chiesto tutte le persone, le organizzazioni palestinesi e
internazionali che abbiamo incontrato? Di pretendere un cessate il fuoco
immediato e permanente, condizione imprescindibile per portare dentro la
Striscia un’assistenza umanitaria degna di questo nome. Secondo uno studio
della John Hopkins University e della London School of Hygene and Tropical
Desease, senza un cessate il fuoco, entro 6 mesi 85.000 persone moriranno nella
Striscia, uccise dalle ferite e dagli attacchi ma anche da malattie
assolutamente curabili.
Ci hanno chiesto di garantire accountability, di smettere di credere a
tutto quello che Israele afferma senza fare neanche lo sforzo di produrre uno
straccio di prova, di smettere di fornire armi ad Israele, di aumentare – non
sospendere! – i fondi ad UNRWA, di fornire assistenza umanitaria in modo
consono, dignitoso, e capillare. Via terra, come è naturale che sia, aprendo
tutti i valichi. E poi di lavorare davvero per la fine dell’occupazione, per lo
smantellamento del sistema di colonizzazione, per una soluzione giusta e
duratura basata sulla giustizia e sul diritto internazionale, non sulla legge
del più forte.
Il vicedirettore della Mezzaluna Rossa palestinese ha concluso così
l’ultimo incontro del viaggio: “Noi siamo un popolo resiliente, capace di
rimettersi in piedi dopo ogni difficoltà. Abbiamo solo bisogno del vostro
supporto e della vostra solidarietà. Garantiteci il vostro supporto e la vostra
solidarietà, e noi ci rimetteremo in piedi e ricostruiremo la Striscia di
Gaza”.
Io posso solo dire grazie a tutte e tutti i miei compagni di viaggio, a
tutte le persone che abbiamo incontrato, alla Palestina e ai Palestinesi, che
continuano ad insegnarci la vita, la dignità, e che ancora, nonostante tutto,
ci guardano negli occhi senza odio. Non lo so come fanno, ma difendere loro
oggi significa salvare noi, tutti noi, l’umanità intera.
Ilaria Masieri della ONG Terre des Hommes Italia.