In Palestina in questi giorni le rivolte, gli scioperi, le manifestazioni
contro l'occupazione israeliana sono portate avanti da giovani stanchi dell'Anp
e di Hamas, slegati da qualsiasi appartenenza di fazione o partito. Così inizia
a essere anche in Italia
«La mia biografia e quella della mia famiglia sono un classico esempio
della storia vissuta da centinaia di migliaia di palestinesi, una storia
comune». È LaylaSitAboha a raccontare. Attivista delle e dei Giovani
palestinesi in Italia, è tra le organizzatrici delle manifestazioni che dalla
scorsa settimana hanno portato nelle piazze milanesi – così come in altre città
– qualche migliaio di persone, soprattutto giovani, e in gran parte cosiddette
«seconde generazioni». La incontriamo prima dell’accordo di cessate il fuoco,
mentre si stanno organizzando le proteste sotto le sedi Rai in Italia, per
farci raccontare chi sono le e i giovani palestinesi che si sono presi le
piazze mostrando una grande consapevolezza di sé e della causa palestinese.
Laila, sei nata in Italia da una famiglia italo-palestinese. Come si
intreccia la resistenza palestinese alla tua biografia e quando questo è
diventato importante per te?
Ho vissuto come gran parte dei ragazzi di seconda generazione con
un’identità ibrida tra l’Italia e il paese di origine della mia famiglia. Fino
all’adolescenza provavo addirittura fastidio verso la mia parte araba che
negavo; soprattutto mi dava fastidio avere un cognome straniero che le persone
leggono sempre in maniera sbagliata. Soprattutto alle medie desideravo avere un
cognome italiano e ho scoperto – confrontandomi con altre ragazze con origini
simili alla mia – che tutte abbiamo vissuto questa fase, la fase del non
sentirsi come le altre, malgrado mia madre sia italiana e io sia nata in
Italia.
Ho avuto la fortuna di avere un padre attivista, impegnato con l’Olp e la
storia della Palestina è sempre stata presente per me e le mie sorelle. I miei
genitori si sono conosciuti a Napoli negli anni Ottanta perché mia madre era
un’attivista per la Palestina e mio padre lavorava lì per l’Olp. Ma la
consapevolezza vera di quello che succede in Palestina l’ho avuta quando ci
sono stata, in particolare con l’ultimo viaggio fatto a Gaza. Già per poterci
andare ho avuto difficoltà, dato che Israele non mi concedeva il visto – a
differenza dei miei compagni con nomi e famiglie italiane. All’entrata nella
Striscia di Gaza ho dovuto subire un trattamento ancora più violento e
umiliante delle altre – per esempio dover rimanere in mutande e reggiseno per
ore in uno sgabuzzino, passata con una specie di scopino per scoprire se avevo
dell’esplosivo, con i soldati israeliani che non accettavano che io fossi
italiana, si rivolgevano in arabo, chiedendomi di parlare in arabo.
Quello che a me ha fatto più male – per il mio percorso di scoperta e
accettazione dell’identità palestinese – è stato dover negare la mia identità.
Mentre qui in Italia dico di esser palestinese e le persone capiscono cosa vuol
dire, in Israele, soprattutto davanti a un soldato, devo dire che mio padre e
mio nonno sono cittadini giordani – perché effettivamente lo sono diventati.
Anche a livello psicologico questa negazione crea una forte frustrazione. Mio
nonno – il padre di mio padre – era di Haifa; nel 1948 si sono trovati in piena
Nakba e la loro famiglia contadina fu espulsa e costretta a fuggire a Jenin,
dove ha conosciuto la nonna e dove si sono stabiliti. Mio padre, nato in
Palestina nel 1964, non ha un certificato di nascita, perso insieme a tutti i
documenti; dopo la guerra del ’67 e l’occupazione della Cisgiordania la sua
famiglia è scappata in Giordania. Come centinaia di migliaia di palestinesi
conserviamo il documento delle Nazioni unite che ci riconosce come rifugiati e
quando verrà attuta la risoluzione 194 potremo tornare nelle nostre case.
Prima di questi giorni convulsi stavo leggendo Ghassan Khanafani –
scrittore di grandissima potenza e capacità espressiva e per questo
neutralizzato, ucciso dai servizi israeliani. Il suo Ritorno ad Haifa racconta
il dolore e tocca la parte intima di ogni palestinese, ognuno si identifica in
quella storia. Nel 2017 con mio padre siamo stati ad Haifa, abbiamo cercato la
casa di mio nonno e l’abbiamo trovata, nel quartiere di Wadi Salif, una zona
gentrificata, meta di turismo europeo.
La generazione di mio padre è una generazione distrutta dalla vita, sono
quelli andati a combattere in Libano, che hanno fatto la prima e seconda
intifada, hanno creduto negli accordi di Oslo e dopo il loro
fallimento si sono trovati con nulla. La mia generazione, noi giovani
palestinesi italiani, abbiamo rotto con quella precedente e con una
rappresentanza palestinese che non ci rappresenta affatto – così come non
rappresenta le e i giovani palestinesi in Israele e nei territori
occupati.
In tutta la Palestina in questi giorni le rivolte, gli scioperi, le
manifestazioni sono organizzate e portate avanti dai giovani palestinesi,
slegati da qualsiasi appartenenza di fazione o partito. Le manifestazioni a
Milano e in moltissime altre città italiane hanno creato un parallelismo con
quello che succede in Palestina: noi siamo stanchi dell’Anp, siamo stanchi di
Hamas, siamo stanchi dell’occupazione israeliana, come qui siamo stanchi del
Partito democratico e di Salvini, di una concezione razzializzante ed eteronormata
della politica. Salvini dal palco della comunità ebraica romana ha voluto
attaccare le seconde generazioni. Le piazze, riempite dalle seconde
generazioni, sono le piazze del futuro, sono l’Italia del futuro.
Chi sono le e i Giovani palestinesi in Italia? Come nascono e che relazioni
politiche avete con le generazioni precedenti? Qual è stata la trasmissione di
memoria e politica che vi è arrivata?
Le e i Giovani palestinesi nascono da questa frattura che c’è qui in Europa
come in Palestina. A un certo punto abbiamo deciso di rompere con la tradizione
dei nostri genitori, perché veniamo da quella frustrazione, dalla corruzione
del governo dell’Anp nella sua collaborazione con l’occupazione israeliana, e
dal fallimento delle espressioni politiche palestinesi. Per quanto mi senta di
appartenere alla sinistra palestinese, quella esistente non mi
rappresenta politicamente e se condivido con loro percorsi di lotta penso
debba essere superato e profondamente trasformato il panorama partitico palestinese.
Non lo diciamo noi dall’Europa, ce lo stanno dicendo da Haifa, a Nazareth, Lod,
a Jenin, Nablus, Gerusalemme, da chi sta combattendo. Chi ha organizzato i riot
dei giorni scorsi non sono i partiti ma le persone che vivono e soffrono
l’occupazione quotidiana 24 ore su 24.
La politica palestinese ha sempre escluso i palestinesi residenti nei
territori del ’48, considerandoli privilegiati mentre invece vivono nel ventre
della bestia, sono loro che possono far nascere un cambiamento. Se Israele in
Europa continua a presentarsi come uno stato di diritto, la loro vita racconta
cosa significa davvero essere palestinesi in quello stato. Sta girando in
questi giorni su Instagram un video di un palestinese cittadino di Israele con
la casa circondata da coloni armati che chiama la polizia israeliana che gli
risponde di rimanere in casa. E lui dice «sono cittadino di questo paese, anche
se voi non avete previsto la mia presenza, io ho i documenti di questo paese».
Abbiamo rotto politicamente con la generazione precedente (anche se per
fortuna molte persone di questa ci ascoltano e sostengono) e sottolineiamo che
ogni parola della nostra sigla – Giovani palestinesi italiani – ha un forte
significato. Non abbiamo un’appartenenza politica e siamo all’inizio di un
percorso di consapevolezza e presa di parola. Questa rottura è molto evidente
adesso, in queste settimane si è accelerata. La maggioranza di noi è stanca, si
è stufata di una situazione di stallo; quasi tutti i nostri genitori hanno una storia
politica, ogni famiglia ha una storia politica, difficile che qualcuno sia
fuori da questi meccanismi di diaspora, di familiari ammazzati, imprigionati
ecc. Prendere parola diventa necessario per la sopravvivenza. Certamente più
avanti sarà necessario stilare un manifesto politico, trovare alcune linee di
indirizzo, perché evidentemente non siamo d’accordo su tutto.
La generazione dei vostri padri certamente si sente ancora legata alla
Palestina, è la loro identità e la loro ragione di esistenza, ma allo stesso
tempo sembra che in qualche modo si siano «adattati», abbiano subito troppo
forte il colpo della frustrazione e della disillusione…
Noi che siamo nate qui abbiamo strumenti di comunicazione che non avevano i
nostri padri. Loro erano considerati arabi, stranieri, qualcosa di diverso; noi
dalla nostra abbiamo il fatto che siamo italiani e italiane, abbiamo fatto le
scuole qui, parliamo perfettamente la lingua, conosciamo i nostri diritti e il
diritto internazionale. La nostra forza è la consapevolezza. Conosciamo anche
la storia e i fallimenti della sinistra italiana nel suo rapporto con la causa
palestinese e oggi vogliamo essere i protagonisti. Nei giorni scorsi mi ha
chiamato un esponente dei Verdi che ha organizzato la manifestazione di sabato (22
maggio) per chiedermi se volevo parlare; ma non sei tu che chiedi a me di
parlare, siamo noi che prendiamo la parola, a questo giro la voce deve essere
la nostra.
Per questo a Milano la scorsa settimana non abbiamo voluto fare un corteo
ma abbiamo preferito rimanere in piazza, per poter far esprimere chi era
presente, perché le ragazze e i ragazzi hanno bisogno di parlare, di
esprimersi. A Milano, per esempio, è intervenuto Karim dicendo che per lui
parlare davanti a 5.000 persone di suo cugino ammazzato a un chekpoint era
importante, anche sul piano psicologico. Se una ragazza o un ragazzo
marocchino, egiziano ecc. torna a casa avendo capito qualcosa in più di quello
che succede in Palestina, è già un successo. E al nostro fianco vogliamo quelli
che ci fanno parlare, che non si sovrappongo alla nostra partecipazione.
Come stavi appunto dicendo, quelle piazze hanno visto una fortissima
partecipazione di giovani e di seconde generazioni del mondo arabo e
afrodiscendenti. Perché quella presa di parola – molte di loro avevano cartelli
autoprodotti – avviene oggi e per la Palestina?
Sicuramente c’è un bisogno sociale che va oltre la causa palestinese. Non
era solo la Palestina a motivare la partecipazione in quella piazza – anche se
certamente vivono quello che succede in quel territorio come un’ingiustizia. Le
persone di seconda generazione però vivono e sentono una discriminazione anche
qui e ora: non va avanti la legge sulla cittadinanza, il loro accesso ai
diritti è sempre complicato, la trafila di permessi, documenti è sempre
difficile, conoscono la questione dei Cpr…
La loro presenza in piazza è anche legata al mondo dei social. Con
personaggi diventati leader sulla scena pubblica senza appartenere a movimenti
sociali o partiti, ma semplicemente perché hanno postato e rilanciato l’evento
per la Palestina. Tra questi Ghali che ha una sua consapevolezza di essere
italiano-tunisino, sa cosa succede in Palestina e fa anche una scelta
coraggiosa visti i suoi contratti con le major. Esiste a Milano una scena trap,
di seconde generazioni, dalla Barona, al Gratosoglio, a San Siro. La realtà ha
superato le strutture istituzionali, urbanistiche, sociali. Questa scena
musicale – che viene vissuta anche come forma di resistenza – è direttamente
patrimonio di quelle giovani e giovanissime generazioni. È importante che si
stia creando questa consapevolezza verso la questione palestinese ma in quelle
piazze non c’erano solo palestinesi, c’erano ragazze e ragazzi della regione
araba, delle comunità afrodiscendenti, razzializzate anche attraverso i mezzi
di comunicazione; c’era la comunità colombiana, che oggi è mobilitata in
solidarietà alla rivolta nel loro paese. Oltre a riconoscere l’ingiustizia
palestinese, in quella stessa ingiustizia ne riconoscono altre e provano a
prendere parola su quelle.
Sono le e i giovani delle periferie ed è importante far venire le periferie
nel centro di Milano. A San Siro abitano 80.000 «stranieri» ed è un numero
importante. Anche questa composizione urbanistica e sociale spiega cosa sta
succedendo. I Giovani democratici del Municipio 1 (centro storico) scrivono
sulle loro pagine social che sostengono i diritti dei palestinesi ma anche il
diritto di difendersi di Israele… i Giovani Democratici sono in grande maggioranza
bianchi occidentali con pieni diritti – chi vogliono rappresentare, a chi
stanno parlando? Questa parte dell’elettorato non la vedono. Il sindaco
Giuseppe Sala – che aveva invitato Ghali a Palazzo Marino, sfruttandone la
visibilità per avere appeal su quell’elettorato – aveva un’iniziativa a poche
centinaia di metri dal nostro presidio e non si è fatto vedere e ha taciuto.
Come se si vivessero due realtà parallele, quella reale e quella delle
dinamiche di potere.
Quella e altre piazze si sono distinte per un’alta partecipazione
femminile. C’erano gruppi numerosi di ragazze, molte portavano il velo, molte
altre no, e in tante hanno preso parola.
È una sfida diretta alla rappresentazione orientalista e stereotipata della
donna araba, sottomessa, con il velo, bisognosa che qualcuno prenda parola per
lei… Certamente – qui come in Palestina e nel mondo arabo – c’è un problema di
patriarcato, come esiste ovunque nel mondo. Ma le donne palestinesi e arabe non
devono essere salvate né dall’occidente né da nessuno. La maggior parte di
interventi in quella piazza erano di ragazze arabe e palestinesi, con o senza
velo. Purtroppo in altri luoghi – per esempio a Roma – la maggior parte degli
interventi è stato fatto da uomini, dai cinquant’anni in su e le e i giovani palestinesi
gli hanno dovuto strappare il microfono. Milano e altre piazze hanno
rappresentato quello che succede nel paese, con centinaia di ragazze
giovanissime non accompagnate come nella narrazione stereotipata dal padre o
dal marito, realtà che esiste indubbiamente ma la piazza ha comunicato
qualcos’altro e non si può nascondere questa realtà. Piazze simili a quelle
di Black
LivesMatter in Italia lo scorso anno che rappresentavano
chi vive in questo paese, chi ha bisogno di tutela dei propri diritti in questo
paese. La politica non può rimanere indifferente a tutto questo.
Attenzione, so benissimo che c’è una strumentalizzazione patriarcale della
donna palestinese che subisce canoni culturali e sociali molto forti – essere madre
di famiglia, produrre figli per la patria ecc. È fortissimo il patriarcato ed è
forte la visione eteronormativa, ma tra le e i cittadini palestinesi di Israele
e ora anche in Cisgiordania ci sono tante associazioni che lottano contro tutto
questo come Al Aswat, come tantissimi collettivi queer che cercano di
distruggere la versione «gay friendly» di Israele. In questi giorni ho visto i
post di molti e molte compagne palestinesi che recitavano «Palestine is a
queerissue». Trovo tutto questo molto potente, e ho imparato che se le lotte
sono intersezionali non esisterà liberazione per nessuno.
Cosa pensi della solidarietà politica e umana verso la Palestina che in
Italia non manca? Che legame avete con questa storia e cosa manca a queste
aree? Nelle manifestazioni in questi giorni abbiamo sentito ancora slogan come
«Palestina rossa» e abbiamo visto la presenza di settori politici con cui
sembra non abbiate molti legami.
Quello slogan è autoreferenziale da parte della sinistra italiana e non
solo, non parla a nessuno, non è sentito come nostro. Quello che resta della
sinistra «extraparlamentare» racconta cose che non esistono, spesso frutto di
un posizionamento ideologico. L’altro giorno una persona che si ritiene
solidale, probabilmente mai andata in Palestina, è venuta a spiegarmi che Hamas
sta facendo la resistenza e che tutti i palestinesi stanno con Hamas… C’è
qualcosa che non va nella percezione di quello che sta succedendo in quel
paese. Se tu definisci resistenza il bombardamento – che ha portato al risultato
di 58 mila sfollati e centinaia di morti – significa non aver capito nulla.
Per me resistenza è quello che stanno facendo nei territori del ’48,
riconoscere la propria identità di palestinese dentro lo stato di Israele – non
lanciare missili e fornire il pretesto di non parlare più di quello che avviene
a Gerusalemme. L’altro giorno hanno decretato ShaikJarrah zona militare come
Shuaada Street a Al Khalil/Hebron. Solo gli israeliani potranno entrare a
SheikJarrah a parte i palestinesi già residenti. Noi dobbiamo avere attenzione
su quello, sul progetto di pulizia etnica attraverso la deportazione di
palestinesi dai loro quartieri. Naturalmente associazioni di solidarietà e Ong
sono importantissime, per la loro solidarietà diretta con le persone in Palestina
e per quello che tornano a raccontare qui in Italia. Però abbiamo bisogno di
qualcosa di più. L’altro giorno abbiamo contattato un giornalista del Corriere
della sera chiedendogli di raccontare cosa sta succedendo, dandogli i
contatti di giornalisti di Al Jazeera e Associated
Press a Gaza. Come giornalista dovresti prendere parola, soprattutto
dopo il bombardamento del palazzo della stampa. La sua risposta più o meno è
stata: «ma la linea editoriale del giornale è un’altra. Se volete potete
raccontare una storia, magari quella dei bambini che soffrono ecc.». Questo
episodio mi ricorda il
monologo di RafeefZiadah. Ogni volta che bombardano Gaza ci chiedono di
raccontare una storia «umana», non di parlare di politica. Parlaci di un
bambino morto, di un bambino mutilato… ma perché non possiamo parlare di
politica, della pulizia etnica, delle deportazioni che abbiamo subito,
dell’esistenza ancora di campi profughi dopo 73 anni (in Libano come in
Cisgiordania)? Possiamo parlare dei bambini e delle loro sofferenze ma abbiamo
bisogno che qualcuno ci dia delle risposte politiche.
Alle e ai solidali chiederei innanzitutto di ascoltare le e i giovani
palestinesi, quelli che si stanno rivoltando in Palestina, ascoltare quello hanno da
dire; poi di utilizzare tutti i mezzi disponibili per raccontare la verità, far
circolare una narrativa differente da quella del momento: prendere parola
sull’ingiustizia – come insegna il lavoro della sociologa Linda Tabar. Dobbiamo
insieme costruire una struttura di rivendicazione politica.
*Piero Maestri, attivista, è stato redattore di Guerra&Pace ed
è coautore tra l’altro di #GeziPark (Alegre 2013).
Articolo tratto da https://jacobinitalia.it/
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